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Elena Ferrante, quando la realtà si «smargina»

Autore: Andrea Colombo
Testata: Il Manifesto
Data: 14 novembre 2014

Elena Ferrante. Le inutili domande sull’identità di chi si cela dietro il nickname dell’autrice, cancellano il valore dell’opera For­tu­na­ta­mente Elena Fer­rante è diven­tata un caso let­te­ra­rio. Sfor­tu­na­ta­mente per le ragioni sba­gliate. Negli Sta­tes incassa applausi dalla cri­tica e vende a manetta, come non suc­ce­deva dai tempi dei tempi. Ral­le­grar­sene è d’obbligo, ma il lieto evento resta un par­ti­co­lare secon­da­rio. In patria impazza la cac­cia all’identità segreta della bene­me­rita. Sulla Stampa un buon­tem­pone ha sen­ten­ziato che la con­qui­sta dell’America, a suo gusto inspie­ga­bile, deriva dall’anonimato di cui la sleale si cir­conda. Ana­lisi tanto sur­reale da meri­tare lodi: fare di peg­gio sarà un’impresa. In com­penso una respon­sa­bile delle pagine cul­tu­rali diRepub­blica, mica pif­feri, ci ha messo del suo inau­gu­rando un genere gior­na­li­stico sinora ine­dito, l’intervista-stalking. Vit­tima il mal­ca­pi­tato Dome­nico Star­none, ber­sa­gliato da un terzo grado che dire poli­zie­sco è poco. Con­fessa che sei tu! Ammetti e fac­cia­mola finita: abbiamo tanti indizi da far prova! INU­TILE PETTEGOLEZZO Le face­zie di que­sto tipo sono da sem­pre il sale della pub­bli­cità, ma hanno il loro prezzo. La gustosa discus­sione sull’identikit della scrit­trice spinge in secondo piano quel che ha scritto, lo deru­brica a oggetto di ciarle e chiac­chiere stuc­che­voli. Come se, per restare sotto la ban­diera a stelle e stri­sce, gli ame­ri­cani si fos­sero tanto appas­sio­nati al «caso Pyn­chon» da non accor­gersi che il suo Gravity’s Rain­bowaveva rove­sciato come un guanto la loro letteratura. Il para­gone non è esa­ge­rato. Chiun­que lo abbia scritto, L’amica geniale non è solo un bel­lis­simo romanzo ma un punto di svolta nella let­te­ra­tura con­tem­po­ra­nea di que­sto Paese. All’anonima in que­stione è riu­scito quel che mol­tis­simi ave­vano inu­til­mente ten­tato, scri­vere l’autobiografia di una gene­ra­zione, del suo tempo sto­rico, dei suoi fal­li­menti. Quello del comu­ni­smo e del fem­mi­ni­smo, come ha scritto giu­sta­mente Laura For­tini nella sua recen­sione sul mani­fe­sto (6 Novem­bre 2014), ma non solo. Anche quello del pro­gresso, della mobi­lità sociale ten­dente all’egualitarismo, della spe­ranza di un riscatto sociale affi­dato alla capa­cità, alla cul­tura, soprat­tutto all’intelligenza, grande pro­ta­go­ni­sta, sin dal titolo, della tetralogia. L’intelligenza è il solo capi­tale, l’unica arma di cui le pro­ta­go­ni­ste nate nella mise­ria dei rioni popo­lari di Napoli, Lenù e Lila (ma anche Nino, amato da entrambe), dispon­gono per cam­biare il mondo e le loro vite. La ado­pe­rano in maniera oppo­sta. Lenù la mette a frutto, rispet­tando sem­pre, sia pure in modo cri­tico, tutte le regole: stu­dio, ottima uni­ver­sità, car­riera bril­lante, libri di suc­cesso, un bel matri­mo­nio, figlie nate con la vit­to­ria in tasca. Lila la dis­sipa, e di regole non ne rispetta nean­che una: ferma alla licenza ele­men­tare, stan­ziale per decenni nel degrado del rione, mai una riga pub­bli­cata dopo quel primo ecce­zio­nale com­po­ni­mento infan­tile che aveva rive­lato il suo talento, un figlio desti­nato allo sban­da­mento per­ma­nente. Eppure anche lei, pur nei con­fini del quar­tiere, è baciata per un po’ dal suc­cesso: pio­niera dell’informatica, impren­di­trice fat­tasi da sé, quasi ricca. Lenù parte, anzi «fugge». Lila resta e ci prova dall’interno, oppo­nendo il suo cari­sma alle regole eterne delle strade di Napoli. Fini­scono entrambe scon­fitte. Il mondo non cam­bia e il saldo delle loro esi­stenze è ambiguo. Die­tro ogni «rin­no­va­mento» di Napoli ghi­gna il solito sven­tra­mento. Alla fine, le regole eterne del censo restano le sole che con­tino dav­vero. Per gli amici cre­sciuti con loro la tra­iet­to­ria è iden­tica: scon­fitti quelli hanno fatto car­riera con il Psi di Craxi, quelli che sono ascesi con la camorra, quelli che hanno spa­rato per una rivo­lu­zione sognata. Per­dono tutti: chi la vita, chi la libertà, chi l’anima. Quella di Lila e Lenù non è una sto­ria pri­vata. Il loro fal­li­mento è quello della Repub­blica e della prima gene­ra­zione di cit­ta­dini repu­bli­cani, è quello del mirag­gio che aveva illuso l’occidente nei decenni della Gol­den Age post bellica. Elena Fer­rante è riu­scita là dove tanti ave­vano fal­lito non solo per­ché scrive meglio e sa coniu­gare la testa e le viscere come a pochi è dato, ma anche per­ché, forse per la prima volta, riper­corre quella para­bola dal basso, dal punto di vista di quelli per cui l’ascensore sociale non era una defi­ni­zione socio­lo­gica ma il con­fine tra la vita e la soprav­vi­venza. E per­ché non la mette mai al cen­tro della nar­ra­zione, ma la rilegge attra­verso il pri­sma emo­tivo di un’amicizia fem­mi­nile. Ami­ci­zia strana, peral­tro, con quella sim­me­tria troppo per­fetta tra le due bio­gra­fie così pre­ci­sa­mente oppo­ste: l’una il rove­scio esatto dell’altra. Quella che fugge e quella che resta. Quella che scrive e quella che abban­dona la penna da bam­bina per non ripren­derla mai più. Quella che si sforza di dare un ordine alla pro­pria esi­stenza e quella che rischia con­ti­nua­mente di vedere la realtà «smar­gi­narsi» intorno a sé. Quella che passo dopo passo, inav­ver­ti­ta­mente, fini­sce per tro­vare nello spec­chio l’immagine delu­dente di una intel­let­tuale da salotto e quella a cui, se li guar­dasse, gli stessi spec­chi mostre­reb­bero una vec­chia smarr­rita e scarmigliata. UNA DÉB­CLE GENERAZIONALE Due ami­che, legate dal rap­porto più intimo, crea­tivo e tem­pe­stoso della loro vita. Ma forse anche due parti della stessa per­sona, inca­paci di fon­dersi e con­dan­nate a cer­care di ricon­giun­gersi senza riu­scirci (per­ché que­sto, in fondo, è il tema dell’ultimo volume della tetra­lo­gia). E forse pro­prio que­sta inca­pa­cità di rian­no­dare due anime uguali e oppo­ste è all’origine della débâ­cle sto­rica e morale di cui le due ami­che sono par­te­cipi e testi­mo­nianza.Ma Elena Fer­rante è una nar­ra­trice: non le spetta il com­pito di ana­liz­zare o azzar­dare spie­ga­zioni. Nel suo libro ha rac­con­tato e descritto una vita, un’amicizia, un’epoca sto­rica, una gene­ra­zione e la sua ban­ca­rotta: ci si può accon­ten­tare. Andare oltre, darsi una ragione di quel tra­collo, sta a chi legge, per­ché que­sto è quel che si fa con i grandi libri. Se non si è troppo impe­gnati a porsi domande di mag­gior momento, tipo: «Ma Elena Fer­rante è o non è Dome­nico Starnone?».