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Trinacria Park, l'isola inesistente

Autore: Simona Lo Iacono
Testata: Flanneryblog
Data: 18 marzo 2013

Un uomo guarda la costa della Sicilia allontanarsi. E’ sulla nave, e la linea di terra si fa sempre più evanescente, quasi uno sbieco tra due palpebre di occhi.

Eppure,  l’uomo non lascia l’isola. A suo modo, ci ritorna. A suo modo, sputare sull’acqua che lo divide da lei è anche amarla. Anche rimpiangerla.

E’ tutta una contraddizione, il suo amore. Fatto di negazioni e affermazioni dolorose, di falle mai cucite, di desideri che gli sono costati sprechi dell’ anima.

Per questo, ora che se la lascia alle spalle e va incontro a Montelava, uno spirito di rivalsa lo eccita fino allo spasimo. Sta infatti per approdare a un’isola minore, quasi una caricatura dell’isola madre. Ma lì, forse, il destino mancato sulla terra grande potrà  compiersi.

D’altra parte, pensa ancora l’uomo, questa sorte  da secoli rimandata  – una sorte favolosa, sottile quanto una polvere d’oro, sorte di dinastie principesche e arroganti, di dèi ambiziosi fattisi uomini – non è  come un innamoramento, un inseguimento inesausto dell’essere amato?

Così, pensa l’uomo. E frattanto l’isola piccola – l’isola figlia  – si avvicina.

Montelava, dunque. Uno scoglio che corre sdirrupato e si frange tra le croste delle onde, un miraggio che balza dopo aver fatto pochi nodi di mare dal litorale catanese. Mentre il comignolo altezzoso del vulcano ancora infuligina l’aria, infatti, eccola: una principessa nata dalle scorie dell’antico mostro, o una costola d’Adamo, frantumazione  di uno dei tanti esseri mitologici che qui s’aggirano come fantasmi.

Dunque una seconda isola, quasi un’altra opportunità, o forse la metafora, ridotta, dell’altra. E come l’altra, bellissima, fiammeggiante di una giovinezza appena riconquistata, tirata a lucido da un investimento colossale. Finalmente, la sorte vagheggiata, il destino chiamato, invogliato da braci propiziatrici, da gorgoni nascoste, da Pizie che favoleggiano il futuro è qui. E’ adesso.

Su  questo scoglio  dimenticato, infatti – in passato  invaso dalle barbare edificazioni abusive, dai vacanzieri distratti, dai clandestini disperati –  un immenso parco sta per essere inaugurato. Un parco che riproduce in piccolo le fattezze della Sicilia, gli eventi storici, la vegetazione grassa, le cibarie mostardose, i silenzi, i rumori, le musiche, le danze popolari e tribali. Un meraviglioso e stordente intrico di scenari, quinte, sfondi come di teatro, per dire che sì, il sogno è a poche manciate di metri dalla costa.

L’uomo sorride. Si sfrega le mani soddisfatto. Sembra chiedersi: una seconda Sicilia è forse meno pericolosa dell’altra?

Con uno stile visionario, lucido, imperversante, Massimo Maugeri ribalta la realtà, sviscera le apparenze, restituisce alla letteratura il senso di una profonda ricerca di verità.

Giocando ancora una volta sul tema del doppio (due isole, due finzioni, due mondi, uno metafora dell’altro), apre uno squarcio vividissimo, cuce destini incrociati, travolge i luoghi comuni affondando lo sguardo nella complessità delle falsificazioni umane.

Con “Trinacria park” (ed. e/o) ripone nelle mani del lettore il senso di una felicità sempre ingannevole, sempre fuggitiva, amara, che riesce a spogliarsi dei suoi tradimenti solo quando – con sincerità – si racconta.

L’arte assurge allora a unica, vera, realtà, a unica isola davvero esistente, mentre l’altra, piccola o grande che sia, non ne è che l’ombra, il sudario ripiegato, senza corpo.

Sembra quasi, Maugeri, quell’aedo che a fine racconto monta sulla nave per imbracciare la chitarra,  suonare la  vecchia ballata di Calì e Formisano,  ghermire al vento  un cappello nero a falde ampie.

Ha occhi spaesati, febbrili, assuefatti a ogni genere di calamità. Di queste isole sfrontate, dei suoi abitanti falsamente festanti, imbroglioni e imbrogliati,  conosce ogni piega, ogni ristagno, ogni illusione.

Sa però che parlarne non serve, smontarne gli equilibri, neppure. Per questo, canta il suo urlo disperato, selvaggio, irriverente. Pizzica le corde e lo consegna all’abisso, sapendo che scenderà nei suoi fondachi, colerà a picco e sarà forse ingoiato da un mostro impulsivo.

L’aedo sospira, punta lo sguardo all’ultimo lembo di mare che lo riporterà a terra, imperterrito continua a cantare.

Dovesse fermare quel suono, allora sì, l’isola sparirebbe del tutto.