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Fuga da Algeri con un pirata in valigia

Autore: Mario Baudino
Testata: La Stampa
Data: 26 luglio 2011

E'rimasto per quasi vent'anni un libro segreto, che circolava tra pochi amici, oggetto di caute allusioni, soprattutto nel mondo arabo: e in particolare in Algeria, dove Amara Lakhous, allora studente universitario, scrisse un romanzo che poteva costargli la vita. Era il '93, il «decennio nero» era appena cominciato, con l'esplosione del terrore islamista dopo che il regime aveva invalidato le prime libere elezioni. Da quel momento i fondamentalisti scatenarono una ferocissima guerra civile, puntando le loro armi in particolare su intellettuali e giornalisti. Amara Lakhous era uno di questi: finita l'università aveva cominciato a lavorare per la televisione (ovviamente pubblica, ovviamente di Stato). Nell'ottobre del '95 decise di partire per l'Italia, portando con sé il dattiloscritto di Un pirata piccolo piccolo, che ora è stato pubblicato da e/o. Anche quel semplice gesto, racconta l'autore, era in sé pericolosissimo. Il giovane scrittore decise di correre il rischio che qualcuno, alla dogana, gettasse uno sguardo su quei fogli: anche inedito, il suo romanzo poteva costargli molto caro. Nella folle situazione del Paese era uno di quei «libri che uccidono», perché racconta in modo assai critico, feroce, radicalmente scettico la società algerina, stretta fra ipocrisia religiosa, gestione familistica del potere, corruzione, raccomandazioni, impoverimento generale di troppi e arricchimento scandaloso di pochissimi; e soprattutto assenza di speranze. Il protagonista è un impiegato delle poste che sente di vivere ai margini della società e si rifugia in una sorta di individualismo qualunquista, diffidando, dissimulando, assecondando di volta in volta le ondate del rancore e fidandosi solo del proprio membro virile, una sorta di alter ego con tanto di nome, Fertàs, preso dall'antica letteratura erotica araba e che significa «il calvo». Nella disperazione generale, solo Fertàs è un vero amico. E solo lui, alla fine, conta qualcosa. Confinato in una prigione di solitudine, il personaggio che parla di sé nel romanzo si sente e si vive come un pirata. Ma è un pirata piccolo piccolo. I pirati falliti di allora, oggi, hanno dato il via alla loro rivoluzione nelle piazze arabe. L'esito è ancora incerto, ma la lettura di questo libro, lungo soliloquio del quarantenne Hassinu, spiega bene la situazione intollerabile cui hanno reagito, il grande mare della menzogna e dell'ipocrisia (politica e religiosa) che stanno provando ad attraversare. Vent'anni fa era impossibile. Amara Lakhous, in Italia, ha conquistato pubblico e critica con Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio (uscito sempre per E/O nel 2006, da cui il film di Isotta Toso nel 2009), scritto direttamente in italiano. Ora ha capito che il suo libro d'esordio può finalmente uscire dal segreto e dalla clandestinità in cui è rimasto per 18 anni. «Quando l'ho scritto - ci racconta - sapevo che era pericoloso pubblicarlo, ma forse non mi rendevo conto che avevo toccato certi temi assolutamente tabù. Avevo 23 anni, e a quel tempo eravamo tutti pazzi. Nel maggio '93 venne ucciso il più importante scrittore algerino, Tahar Djant - cui rendo omaggio in Scontro di civiltà, citando una sua frase che dice: la gente felice non ha memoria -. Fu l'inizio di una spaventevole strage di intellettuali e giornalisti ». Lo ha spiegato al pubblico di Modica, in Sicilia, dove Un pirata piccolo piccolo, appena uscito nel giugno scorso, è stato uno degli spunti più significativi nel nuovo festival letterario «Contaminazioni», dedicato in particolare agli incroci tra discipline e alle letterature di confine. Amara Lakhous non si sente né un sopravvissuto né un eroe. Pubblicare non è per lui un gesto di sfida. «Adesso c'è un editore algerino che vuole stampare la versione in arabo. Ne sarei molto lieto, ma gli ho chiesto se è ben sicuro di quel che fa. A tuo rischio e pericolo, gli ho detto.Mi ha risposto che la situazione è cambiata, che possiamo provarci». Nel '93 le parti erano invertite. Anche allora Lakhous aveva un editore molto interessato; ma dopo averlo letto con attenzione gli disse costernato che non se ne poteva fare niente. «Ci ammazzano tutti e due», spiegò con semplicità. Il giovane scrittore insisteva, l'editore era così dispiaciuto che gli offrì il denaro perché se lo facesse stampare da solo, a titolo personale. «Ero tentato, ma non trovai nessuna tipografia disponibile». Solo allora capì che il suo libro era «maledetto», e non solo perché mischiava l'alto e il basso, la lingua del Corano e l'arabo di Algeri, le parolacce e la preghiera del venerdì, le prostitute e la Mecca (la tenutaria d'un postribolo, per esempio, è considerata una santa persona perché ha compiuto il pellegrinaggio rituale nella culla dell'Islam): ma anche per la critica feroce allo Stato e alla società, che ne condivide tutti i vizi. Il «pirata piccolo piccolo» (allusione al borghese di Vincenzo Cerami? No, non ci ho pensato, risponde Lakhous) è nello stesso tempo vittima e complice del sistema. Inventare un personaggio così vuol dire avere tutti i possibili nemici, in contesti dove i libri, paradossalmente, contano molto più che da noi. Lo scrittore, a ogni buon conto, non si è arreso. Una volta a Roma, racconta, ha speso tutti i suoi risparmi per un'edizione semi-privata e bilingue con un piccolo editore - titolo originale Le cimici e il pirata -, che non è stata distribuita ma gli è servita per far circolare silenziosamente il romanzo (la traduzione in italiano è di Francesco Leggio), e saggiare il terreno. Ora qualcosa è cambiato. Per il libro «maledetto » comincia una nuova storia. «Non c'è nulla di blasfemo, nessuna critica all'Islam come religione, semmai alla pratica, all'uso distorto. È semplicemente un romanzo scritto da un giovane che si sentiva perso nella società». La vera maledizione era non poterlo pubblicare.