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Arrivano i lupi di fronte al mare di Bari

Autore: Francesco De Martino
Testata: Il Quotidiano di Bari
Data: 3 ottobre 2011

Carlo Mazza parla del suo primo romanzo tra politica, malavita, affari e banche
 
Carlo Mazza è nato a Bari il 26 marzo 1956 e dal 1979 è dipendente bancario, laureato in Scienze Politiche, sposato, due figli. Ha anche svolto attività politica (sezione Pci di Bari-Carbonara, poi diventata sezione Pds e infine Ds), presidente commissione cultura in consiglio circoscrizionale. Giovedì ha presentato a Feltrinelli il suo primo romanzo “Lupi di fronte al mare”, ambientato a Bari crocevia dei traffici con l’Est europeo (legali e illegali), ponte tra Oriente e Occidente (quante città hanno una Chiesa Russa?), territorio dilaniato dalla microcriminalità (nuove leve dalla pistola facile), interi quartieri dominati dalla malavita e infiltrazioni della Sacra Corona Unita. Insomma, anche se ancora non ci sono le storie di escort, Berlusconi e Tarantini, la città e la sua anima fanno da sfondo assai realistico ad un romanzo tutto da leggere. D’un fiato….
 
Alora Carlo, le tue influenze letterarie?
 
“Svevo (in particolare “La coscienza di Zeno”). E poi Berto (“Il male oscuro”), Pavese (“La luna e i falò”), Joyce (“The dead”), Garcia Marquez (“L’amore ai tempi del colera”), Carver (i racconti di “Cattedrale”, quelli che hanno ispirato l’Altman di “America oggi”). Su un piano più tecnico, i miei punti di riferimento sono Sciascia e Ammaniti, che nei suoi libri mi ha insegnato come far confluire storie diverse in un’unica trama. Tra gli scrittori di denuncia sociale, mi piacciono Saviano e Carlotto. In passato ho letto Jean-Patrick Manchette e Osvaldo Soriano. Se qualche volta mi blocco quando scrivo i dialoghi, mi rileggo quelli di “Addio alle armi” di Hemingway. Amo molto il cinema. Conosco a memoria “Carlito’s way” di Brian De Palma. “Lupi di fronte al mare” é nato come la sceneggiatura di un film, infatti più della metà del testo ha una forma dialogica (che prediligo anche per la mia dimestichezza con la scrittura teatrale, frutto di passate esperienze). Una curiosità: ho scritto il romanzo immaginando che ad interpretare i ruoli fossero: Fabrizio Bentivoglio (Bosdaves); Sergio Rubini (Spadaro); Laura Morante (Irene); Valentina Lodovini (Martina). Addirittura, descrivendo Spadaro, avevo davanti agli occhi una foto di Rubini”.
 
Un esordio tardivo, il tuo. Hai avuto precedenti esperienze letterarie? 
 
“Finora la mai unica attività artistica è stata quella teatrale, che ho praticato per alcuni anni per puro piacere. Ho scritto anche dei testi teatrali, di cui uno pubblicato dalla Ecumenica Editrice su iniziativa dell’Arcidiocesi di Bari-Bitonto, un dramma sulla vita di santa Rita da Cascia, rivisitata nella sua quotidianità (“Il silenzio e le rose”). Cose così, fatte per il gusto di farle, senza alcun assillo. Dici esordio tardivo? Le cose succedono quando devono succedere, non è che uno può programmare tutto. E inoltre io credo che bisognerebbe scrivere solo quando si ha qualcosa da dire. C’è in giro roba da fare spavento, scritta non si sa bene per quale motivo e pubblicata chi lo sa perché. Devo aggiungere che ho incubato il romanzo per molto tempo. Una volta completato, l’ho poi tenuto in stand-by, perché ero incerto, quasi intimidito, all’idea di presentare uno degli aspetti fondamentali del lavoro: la potenza dei sentimenti come forza dinamica ed antagonista rispetto all’appiattimento del malaffare e al precipizio dei valori. Poi la visione di film come “Le conseguenze dell’amore” (Paolo Sorrentino) e “Io sono l’amore” (Luca Guadagnino) mi hanno convinto che quella era la strada da battere, e il mio prossimo romanzo ribadirà con molta più decisione lo stesso concetto. Se il malaffare nasce dal desiderio di potere, in definitiva dalla vanità (sentimento negativo), è sempre un sentimento che può scardinare il sistema: la passione, che nel titolo è evocata dalla forza del mare. Le crepe nei piani della banda di Spadaro non discendono tanto dalla lucidità di Bosdaves bensì dal trasporto di Sansipersico per la badante romena; dal desiderio di Varechine per Maravenié, che induce l’uomo a cercare l’amicizia di Cikkeciakke; dal fattivo coinvolgimento di Martina, che vuole conquistare il capitano dimostrandosi intraprendente e capace…”
 
Insomma, vuoi dire che la via giudiziaria e politica (per dire, la riforma dei partiti e dei meccanismi del consenso) non sono sufficienti nel contrasto alla corruzione?
 
“Beh, i fatti lo confermano. La speranza che la politica potesse auto-riformarsi è stata infranta dalla vicenda della mancata abolizione delle province. Ma anche il diseguale livello di impegno dei partiti rispetto al referendum per la riforma elettorale è emblematico delle ambiguità della politica. In quanto alla via giudiziaria, è proprio di questi giorni la notizia che il processo “Gomorra”, quello contro gli industriali del Nord che scaricavano il loro rifiuti tossici in Campania, è finito in prescrizione”.
 
La tua narrazione è stata definita “credibile” dalla critica.
 
“Il mio è un romanzo, frutto di fantasia. Non ho la stoffa del giornalista d’indagine, ruolo che richiede competenze professionali articolate. Ma per un certo periodo, ho letto con molto interesse libri e quotidiani, in modo da comprendere quali fossero i punti di snodo dei “meccanismi” della corruttibilità. Circa gli aspetti più tecnici, ho lavorato con scrupolo: colloqui con un avvocato penalista per valutare reati e pene descritti nella trama, valutazioni da parte di un maggiore dei carabinieri circa alcune particolarità dell’ambiente militare, incontro con un’équipe di anatomopatologi”.
 
La credibilità del tuo romanzo riguarda anche atmosfere, dialoghi, atteggiamenti.
 
“Ho riportato, in presa diretta, il modo di parlare e la gestualità delle persone, con quello stupefacente doppio registro tra l’eloquio pubblico, formale ed aulico (come i discorsi di Spadaro), e quello privato, crudo e volgare, cartina di tornasole del vuoto esistenziale dei protagonisti. Sono stato quasi un anno tra i carabinieri, li ho osservati, li ho ascoltati… ho giocato a pallone con ragazzotti prepotenti e li ho visti diventare boss spietati… ho praticato la politica e ho conosciuto qualche persona per bene ma anche una devastante moltitudine di compiaciuti cialtroni… ho conosciuto professori universitari dalla vita sobria e dalla tenace volontà di combattere le iniquità (quanti valorosi De Marinis nelle Università del Sud!)… ho visto progressivamente scomparire la tensione verso il vero e verso la bellezza…”  
 
 
 Il romanzo di denuncia sociale può colmare l’assenza del giornalismo d’inchiesta?
 
“”Si tratta di due modi diversi di “restituire” la realtà. Il romanzo non può prescindere dalla sua componente immaginaria o profetica. Senza immaginazione, la realtà può solo essere riportata come una fotocopia e non si può guardare oltre, non si possono conoscere i pensieri dei personaggi e quindi penetrare  nella loro rappresentazione delle cose, nella loro sofferenza. Massimo Carlotto descrive con lucidità il passaggio tra il tramonto del poliziesco classico e il successo dei romanzi “noir”, legandolo al desiderio del lettore di non accontentarsi del consueto CHI-COME-QUANDO (un po’ richiamando le cinque “w” del primo capoverso di un articolo, come insegna la scuola anglossassone) bensì di conoscere anche il PERCHE’””.
 
Che cosa hanno in comune le varie narrazioni del noir mediterraneo?
 
“La consapevolezza che il Mediterraneo è un’area di conflittualità politica, etnica, territorio di migrazioni, di guerre, di interessi. Si concentrano sul Mediterraneo le criminalità cinesi, africane,  slave, in un inestricabile intreccio criminale. Lo sguardo degli autori del noir mediterraneo è nero,  osserva con pessimismo le proprie città e il proprio mare deturpate dalla criminalità. Sono Marsiglia, Napoli, Barcellona, Algeri. Ora c’è anche Bari”.
 
Quindi il noir prende atto che non c’è soluzione?
 
“L’unica via d’uscita è la denuncia stessa insita nella trama, che può farsi strada nei lettori solo se alla lucidità dell’analisi sociale si associa una fiction avvincente. Questo connubio porta il lettore al coinvolgimento con la realtà, alla riflessione, all’approfondimento, anche dopo avere terminato la lettura. Così la denuncia sociale descritta nel noir contrasta le menzogne mediatiche e punta al recupero della consapevolezza, contro la massificazione culturale”.
 
 
“Lupi di fronte al mare” è, in definitiva, un romanzo sulla corruzione del potere?
 
“Almeno nelle intenzioni, il fine non è solo quello di narrare la corruzione del potere ma anche il potere della corruzione. L’assunto fondamentale è: il potere esercita sugli uomini una seduzione estrema e la sua ricerca è una potente fonte di degrado morale”.
 
La vicenda descrive, tra l’altro, il mondo delle banche. Perché questa scelta in un romanzo che tratta del potere?
 
“Una premessa: nel romanzo la banca è il simbolo delle attività economiche poste in essere dall’uomo. Inoltre, in un’economia capitalistica le banche rappresentano una componente di potere fondamentale e solidissimo, che tuttavia si fonda proprio sull’affidabilità morale dei suoi rappresentanti. Per un narratore, si tratta di una condizione potenzialmente interessante”.
 
Le linee d’azione di Princigalli, De Marinis e Spadaro sono molte diverse tra loro. A quale idea del potere si rifanno?
 
“L’agire dei tre uomini invera le tre categorie di potere teorizzate da Max Weber: Princigalli rappresenta il potere tradizionale, De Marinis quello legale-razionale, Spadaro quello carismatico”.
 
 
Esiste una specificità della criminalità barese rispetto a quella, per esempio, napoletana o palermitana?
 
“Non sono uno studioso del fenomeno, ma credo che la criminalità barese sia meno strutturata, anche in ragione delle recenti vicende: la Procura di Bari, negli ultimi anni, ha ben lavorato e i capi delle più importanti organizzazioni malavitose sono attualmente in carcere, sottoposti al regime del 41 bis, che non consente alcun contatto con l’esterno. Pertanto, i Capriati, i Parisi e gli Strisciuglio non sono più in grado, come avveniva in passato, di governare il territorio impartendo ordini dal carcere. Insomma, è scomparsa la vecchia generazione di criminali e con essa sono scomparse anche le vecchie modalità di spartizione del potere (il singolo quartiere sottoposto al dominio di un unico clan). Lo spazio lasciato vuoto dai vecchi boss è stato occupato da una second generation, che cerca nuove alleanze ed è formata da giovani disposti a tutto, anche a sparatorie in pieno centro e, in generale, a crimini clamorosi”.