Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Claudio Bisio «Lo so. Bellocchio non mi chiamerà mai, pazienza. allora faccio io il regista nel terzo atto della mia vita»

Autore: Giorgio Terruzzi
Testata: Sette - Corriere della Sera
Data: 14 luglio 2023

Lui, Claudio Bisio, ha appena ripreso a camminare dopo un'operazione all'anca sinistra. Il suo film da regista esordiente, L'ultima volta che siamo stati bambini, compie un primo passo al Giffoni Film Festival il prossimo 20 luglio. Uscita nelle sale prevista per il 16 ottobre, ottantesimo anniversario del rastrellamento nazifascista al Ghetto di Roma. È un debutto, ad anni 66, carico di emozioni, di ispirazione. Claudio lascia da parte le stampelle, mette su un caffè, sorride mentre domando di una scelta professionale, maturata per tappe. «Sto affrontando la terza parte della mia vita. Da attore ho cominciato da un po' a recitare ruoli da padre. Mi sono detto: prima che mi propongano ruoli da nonno, devo trovare qualche alternativa. Non pensavo alla regia ma alla produzione, visto che ho fondato, con mia moglie, Sandra Bonzi, una società, Solea. Cercavo storie per realizzare documentari, fiction, lungometraggi. Sandra ha letto il libro di Fabio Bartolomei che ha lo stesso titolo del film. Me l'ha consigliato, mi ha fulminato. La leggerezza dei bambini, abbinata ad un tema tragico: Seconda Guerra mondiale, Shoah. Ho acquisito i diritti con l'idea di produrre il film. Ho cercato a lungo un regista. Dopo due o tre risposte interlocutorie, i coproduttori, Massimo Di Rocco per Bartleby e Giampaolo Letta per Medusa, mi hanno proposto la regia. Non esisteva nemmeno una sceneggiatura. Ho preso qualche mese di tempo per studiare, ho accettato. Radunando attorno a me persone amiche e capaci come Italo Petriccione, direttore della fotografia e Leopoldo Pescatore, aiuto regista. È un percorso che dura da 4 anni». Bambini, dunque. Sono tre, partono a piedi da Roma alla ricerca dell'amico ebreo, Riccardo «rubato dai tedeschi». L'orrore della Shoah, attraverso gli sguardi inconsapevoli dei protagonisti diventa, se possibile, ancora più incomprensibile... «Una mostruosità. Uno di loro, Italo, è un balilla. Nella prima scena sputa in faccia al bimbo ebreo. Perché mi sputi? Chiede Riccardo. Perché sei ebreo, risponde Italo. Ma come, sono tuo amico e mi sputi? Ecco, forse sarà politicamente scorretto offrire una immagine del genere ma l'orrore sta proprio in questo incipit. Un bambino poteva considerare scontato trattare un ebreo come essere inferiore. Perché l'aveva sentito dire, a casa, a scuola, ovunque». (...)