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Una discesa agl’inferi nello spazio liquido di Leeds

Autore: Rosario Castelli
Testata: La Sicilia
Data: 14 febbraio 2011

È ancora presto per parlare di caso letterario? Forse, ma “Settanta acrilico trenta lana” (E/O), il romanzo con cui si affaccia alla ribalta editoriale la ventitreenne Viola Di Grado, non passa certamente inosservato, a giudicare dalle numerose e lusinghiere recensioni che ha già inanellato. Il suo folgorante incipit (“Un giorno era ancora dicembre. Specialmente a Leeds, dove l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima”) catapulta il lettore nello spazio liquido di una città inglese che solo a pronunciarla ti senti l’acqua nelle ossa, in cui anche il sole ha la freddezza di un neon e gelide patine di solitudine avvolgono come cellophane i sentimenti e le vite delle persone che ci abitano.
La storia che il libro racconta è quella d’una discesa agl’inferi che precipita Camelia Mega e sua madre Livia nel gorgo di un’esistenza in cui i vuoti sono paradossalmente la realtà più concreta. Orfana di un padre adultero che le ha lasciato nell’anima un buco a sua immagine e somiglianza, la giovane protagonista si troverà a dover ricucire la propria esistenza lacerata come fa con i vestiti che trova nei cassonetti e che ricompone dopo averli tagliuzzati e ridotti a brandelli.
La madre, ormai ridotta all’afasia dopo un brillante passato da musicista, vegeta in una casa ammuffita comunicando solo con gli sguardi e fotografando ossessivamente buchi con la sua Polaroid.
L’immaginario che vivifica la creatività dell’autrice è intermediale e ricchissimo, leggendo il libro ci imbattiamo in immagini che non ci stupiremmo di trovare in un certo tipo di cinema visionario -da Tim Burton a David Lynch -, che potremmo veder descritte in romanzi di Irvine Welsh o Amélie Nothomb, a cui pure è stata paragonata, o che starebbero benissimo in un graffito di Jean-Michel Basquiat.
Ma su tutto spicca la personalità già armata e matura di una scrittrice convincente che, pur avendo metabolizzato tante influenze artistiche, riesce a somigliare solo a se stessa componendo un romanzo dallo stile anamorfico. L’anamorfosi è, letteralmente, una “forma ricostruita”, un’immagine che possiamo riconoscere solo collocandoci da un preciso punto di vista. Oggi sono gli artisti di strada – e ce ne sono di bravissimi in Inghilterra - i più abili realizzatori di opere anamorfiche che colpiscono i passanti che percepiscono cavità o profondità inesistenti. Anche Settanta acrilico trenta lana è disseminato di voragini, oblò, buchi, da cui i personaggi, che incedono in equilibrio come sull’orlo di un cratere, rischiano di essere costantemente risucchiati. Sono la metafora di un tempo perduto e irrecuperabile, slabbrato, pieno di effrazioni e diffrazioni, e in cui l’unica possibilità è data da un’insopprimibile coazione a ripetere che ammette solo l’eterno ricominciamento di ogni cosa.
Non sono pochi i pregi dell’opera, ma su tutti spicca la lingua che l’autrice usa con precisione e freddezza chirurgica, con una padronanza degli strumenti espressivi che raramente caratterizza le opere prime e con cui compone un patchwork di vite imperfette, illuminate qua e là da un’ironia british, ora sapida ora amara, con cui vaccinare la disperazione.
Più che di formazione, quello di Viola Di Grado è perciò un romanzo di de-formazione percorso da una vena straniante che rimescola le convenzioni sintattiche, animato da una lingua sorprendente, evocativa, mai scontata o asservita a scopi esclusivamente descrittivi o comunicativi. Tutte qualità che si riflettono nei personaggi, nella descrizione della natura e nella rappresentazione dello spazio interiore, e in cui sono sempre gli scarti dalla norma, le contaminazioni, i cortocircuiti fantastici a produrre guizzi mercuriali.