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La parete

Autore: Daniel Cundari
Testata: Lupi sul balcone
Data: 22 febbraio 2012

Ci sembra di scorgerla questa brigantessa, tra rododendri e ginestre, per poi non ritrovarla più: inghiottita dalle fauci di Caloveto o di Pietrapaola, nei bronchi spinosi di una Sila Greca varcata da appetiti di mosti, turdilli e susumelle. Separata dalla barbarie umana, per sempre. Una parete incrollabile svetta silenziosa e tragica; è il muro di una vita ostile che si sta allontanando, carico di rancori e promesse non mantenute. Persino gli ultimi resti antropici sono pietrificati, la catastrofe si posa senza scampo su ogni respiro. E d’un baleno sopravvivere significa sposare la natura più selvaggia, gli animali più insoliti, ridestare i fuochi del passato e scandagliare gli abissi della nostra anima.

«Sconcertata, allungai una mano e toccai qualcosa di freddo e di liscio: una resistenza gelida e levigata, in un punto in cui non poteva esservi altro che aria. Riprovai una seconda volta, esitando, e di nuovo la mia mano si posò come sul vetro di una finestra. Poi udii un battito forte e mi guardai attorno, prima di capire che era il pulsare del mio cuore a rimbombarmi nelle orecchie. Il mio cuore si era spaventato ancora prima che io mi rendessi conto. Sedetti sul tronco d’un albero lungo il bordo della strada e tentai di riflettere. Non ne fui capace. Pareva che tutti i pensieri mi avessero di colpo abbandonato».

“La parete”, capolavoro della solitudine, è stato scritto nel 1963 dall’austriaca Marlen Haushofer. Il titolo fu scelto da Hans Weigel che, nonostante avesse già fatto a pezzetti vari lavori dell’amica, paragonò senza esitazioni “La Parete” alla “Peste” di Albert Camus a “Il risveglio della terra” di Knut Hamsun e al “Robinson Crusoe” di Daniel Defoe. Ma mentre Robinson nella sua storia sa cosa gli è successo ed è cosciente di essere un naufrago su un’isola deserta, quello che accade alla protagonista anonima della Haushofer non è detto e addirittura non può essere nemmeno nominato.

«Tre volte mi alzai, per convincermi che lì, a tre metri di distanza, ci fosse veramente qualcosa d’invisibile, freddo e liscio, a impedirmi di proseguire il cammino. Pensai a un’allucinazione, ma sapevo benissimo che non poteva trattarsi di nulla di simile. Avrei preferito accettare un po’ di follia, piuttosto di quella terribile cosa invisibile».

Non è la guerra che ha sterminato l’ultima presenza umana, bensì l’uomo stesso, torturato da una fame di violenza che, una volta per tutte, lo costringe all’evasione o alla follia. La natura come rifugio dell’impossibile. La selva come paradiso della realtà. La pioggia, la neve e il sole come nascondiglio del tempo.

«Allargai i rami grondanti e nella penombra della caverna, addossato alla parete rocciosa, vidi un camoscio morto. Era un animale adulto, che nella morte aveva un aspetto singolarmente esile e minuto. Potevo riconoscere distintamente lo sfogo biancastro della rogna, che gli ricopriva la fronte e gli occhi come un fungo malefico. Un animale reietto solitario, sceso dagli alti ghiaioni, dai pini nani e dai rododendri per rintanarsi cieco e moribondo in quella caverna».

Da un antro sperduto di Cropalati, dietro le fulgide fronde del primo tramonto, ci piace immaginare lo scatto finale della nostra brigantessa, magari in una sequenza de Il Cacciatore di Michael Cimino o sotto le ombre rarefatte della voce di Bambino, interprete andaluso di memorabili Rumbas, tra le quali la omonima La pared.

Scappare o impazzire, dunque. Ma siamo sicuri che la solitudine vera sia una sensazione privata? O forse si è davvero soli quando ci si sente tali in mezzo alla gente?