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L'"ustione Napoli" di Elena Ferrante

Autore: Mirella Armiero
Testata: Il Corriere del Mezzogiorno
Data: 7 novembre 2006

Ancora una volta Napoli è presente con forza nel lavoro di Elena Ferrante, pseudonimo della misteriosa scrittrice che, a detta del suo editore, vive lontana dalla città da tanti anni (e sulla cui identità si sono scatenate ipotesi più o meno verosimili, per esempio è stata identificata con Goffredo Fofi o con Domenico Starnone, e ad ogni identificazione è seguita la puntuale smentita dell’interessato).

Un clan di napoletani infesta con chiassosa protervia la spiaggia dove si trova in vacanza Leda, protagonista del nuovo romanzo, La figlia oscura (edizioni e/o, pagine 141, euro 14,50), in libreria da venerdì prossimo. «Gente cattiva», dice il bagnino e ci lascia immaginare la provenienza dubbia di quella «brutta ricchezza» e di quella prepotenza. Leda pure viene dal Vesuvio e il clan la riporta indietro, alla sua infanzia e alle stimmate di una napoletanità detestata.

«A partire dai tredici-quattordici anni», è il pensiero della protagonista, «avevo aspirato al decoro borghese, a un buon italiano, a una buona vita colta e riflessiva. Napoli mi era sembrata un’onda che mi avrebbe annegata. Non credevo che la città avrebbe mai potuto contenere forme di vita diverse da quelle che avevo conosciuto io da bambina, violente o sensualmente indolenti o di sguaiatezza sdolcinata o ottusamente arroccate a difesa del proprio degrado miserabile. Non le cercavo nemmeno, quelle forme, né nel passato né in un possibile futuro. Ero andata via come un'ustionata che urlando si strappa di dosso la pelle bruciata credendo di strapparsi di dosso la bruciatura stessa».

Ecco dunque una delle più efficaci definizioni coniate negli ultimi anni per la città: l’«ustione-Napoli», per l’appunto.

Ancora una donna, o meglio una madre, si trova al centro del discorso della scrittrice che indaga dall’inizio della sua carriera i percorsi dell’identità femminile, pur non lasciandosi affatto incasellare nella letteratura «di genere». Tre anni fa un’importante casa editrice svedese acquistò i diritti di traduzione del romanzo della Ferrante I giorni dell’abbandono, ma poi il libro fu censurato perché giudicato immorale. Non per eccessi sessuali o per immagini violente, ma per il tema della maternità rifiutata. Olga, la protagonista di quella storia, sperimentava infatti durante i «giorni dell’abbandono» e della perdita dell’amore, anche una crudele e involontaria indifferenza verso i propri figli.

Ed è proprio su questo scivoloso confine che torna a spingersi di nuovo la Ferrante, riprendendo per grandi linee diversi nuclei tematici avviati nell’altro romanzo come nel primo, quello del fortunato esordio, L’amore molesto (entrambi sono stati portati sul grande schermo, l’uno da Roberto Faenza, l’altro da Mario Martone). Anche stavolta la protagonista, dal mitologico nome, viene da una infanzia napoletana funestata da una madre troppo bella e incapace di capire i turbamenti della ombrosa figlia. Anche stavolta torna la «frantumaglia», termine che definisce un grumo di malessere, una faticosa dispersione del sé («Ebbe un gesto per indicare una vertigine ma anche un senso di nausea… mia madre la chiamava frantumaglia») e che la Ferrante ha usato come titolo di un suo libro di riflessioni sulla scrittura. E soprattutto c’è di nuovo la maternità come evento insondabile dall’esterno, che conferisce alla donna un enorme potere e che può essere perfino funesta e incontrollabile, come in una tragedia greca. Tanto che Leda è costretta a fuggire dal suo ruolo per ben tre anni, lasciando le figlie piccole al padre, senza provare il desiderio di vederle, e neppure di sentirle.

Questo episodio, centrale e denso di conseguenze nel racconto, è cronologicamente lontano dal punto in cui la narrazione prende l’avvio, appartiene al passato di Leda. È inconfessabile e occultato nella coscienza, mentre l’ancora avvenente studiosa di letteratura inglese si avvia verso il Sud per una solitaria vacanza che le dona una piacevole leggerezza: «Nessuno dipendeva più dalla mia cura e io stessa finalmente non mi ero più di peso».

Ma l’incontro che Leda fa sulla spiaggia non è galante o frivolo. È invece una sorta di doloroso inciampo in un’altra se stessa, una donna giovane e bella (unica eccezione dell’odiato clan partenopeo), che sembra presa soltanto dalla sua bambina e che restituisce a Leda l’invidiabile immagine della madre perfetta. È soltanto un’apparenza, ma tanto basta a scatenare la reazione della protagonista che cerca di incrinare quel microcosmo di amore con un atto apparentemente inconsulto, eppure terribile: il furto di una brutta bambola, la preferita della bambina.

Sull’analisi di questa geometria degli affetti e delle emozioni si fonda l’abilità di Elena Ferrante che, come poche scrittrici, sa scandagliare e soppesare ogni azione dei suoi personaggi e che, dietro il minimalismo di pagine fondate su pochissimi «fatti», sa aprire squarci sorprendenti sopra profondi drammi dell’anima. Magari a discapito, in questo breve ma denso romanzo, dell’ironia che ha utilizzato in passato con maggiore disinvoltura, come strumento di difesa dal «male di vivere», ma — come sempre — con un rigore «scientifico» nell’analisi di caratteri e di sorprendenti itinerari esistenziali.