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La lingua di “Divorzio all’islamica a viale Marconi”

Autore: Laura Mancini
Testata: Flanerì
Data: 12 giugno 2011

Dal fronte della letteratura della migrazione non si può non applaudire al grande successo ottenuto da Amara Lakhous, a sbugiardare il fallimento critico e pubblico della categoria, sempre che di categoria si possa parlare. Dal precedente Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio sono trascorsi quasi quattro anni e lo scrittore sembra averne guadagnato in consapevolezza e struttura, la seconda prova non si mostra inferiore alla prima quanto a composizione e a ricezione. La casa editrice e/o – da sempre sensibile a questa nuova (ma neanche troppo!) realtà letteraria – ne ottiene il giusto riconoscimento e l’autore può ormai dirsi dentro la letteratura contemporanea nazionale, e non più confinato al famoso scaffale nordafricano dove in pochi vanno a curiosare.

Al convegno celebrativo dei vent’anni di letteratura della migrazione tenutosi a Bologna lo scorso autunno, Lakhous, apparso in video, ha raccontato di aver composto questo romanzo con l’aiuto di diversi collaboratori, studiosi, amici, provenienti da regioni e contesti sociali differenti. E di aver fatto questo per poter conferire un carattere collettivo, corale, espressionistico (ma forse esageriamo) alla lingua del suo testo. La scelta di Lakhous – quella cioè di utilizzare il dialetto nel proprio romanzo o di ideare tanti idioletti per quanti sono i personaggi – assume un peso critico notevole se inquadrata entro una più ampia panoramica “generazionale” che interessa l’evoluzione della narrativa migrante nel nostro Paese, dall’inizio degli anni Novanta a oggi.

Ora vale forse la pena di riflettere su questa specifica questione linguistica, che pone non pochi interessanti interrogativi critici: superato ormai dai tempi di Ascoli il dilemma della dignità dialettale rispetto allo standard, si giunge, nel caso degli autori della migrazione, ad una più drastica conclusione, e cioè che l’uso del dialetto si faccia segno di una più profonda penetrazione nell’humus culturale della destination culture italiana. Ma è davvero così? Quali implicazioni sociali e politiche comporta o dovrebbe comportare la sperimentazione dialettale e plurilinguistica da parte di questi autori?

Una parola risolutiva sulla questione è forse impossibile, ma ad aiutare la comprensione del caso sarà utile richiamare all’attenzione del lettore una generica distinzione tra la prima produzione degli autori migranti in Italia e l’ultima espressione di questa narrativa. La prima è collocabile tra la fine degli  anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ed è opera di editori coraggiosi e attenti. In questi romanzi spesso la figura del protagonista coincide, con intenti che potrebbero dirsi documentaristici, di rielaborazione autobiografica e di ferma denuncia, con quella del narratore. Sono questi scritti spesso realizzati mediante la collaborazione e la coautorialità con linguisti, portatori di un solido supporto tecnico all’uso della lingua. Il linguaggio, quindi, usato ai fini della stretta descrizione, ha spesso esiti asettici, neutrali, poco letterari.

Da quei giorni ne sono successe di cose, la comunità si è allargata, con interessanti – forse le più audaci – escursioni narrative nei prolifici ambiti della letteratura di genere e in quella per ragazzi. Col passaggio alla seconda generazione la presa si è fatta più salda, la voce più dura.  La produzione contemporanea è espressione di una nuova soggettività autoriale, linguisticamente indipendente, consolidata nella sua cittadinanza italiana e nella sua rielaborazione dell’interculturalità.

Sono quindi rintracciabili (almeno) due diversi livelli di interpretazione della diversità linguistica e della sperimentazione ad essa conseguente: un primo, nullo o quasi, nella produzione “originaria” ed un secondo, che è frutto di un più consapevole uso e riuso della lingua, o delle lingue, nelle opere più recenti.

È frequente che, nella lettura delle opere degli anni Novanta, si riscontrino osservazioni riguardanti la questione linguistica, ma tutte dominate dal senso della difficoltà nella relazione interculturale, o della discriminazione su base linguistica, come nel caso di Immigrato di Salah Methnani, scritto in collaborazione con Mario Fortunato. I primi autori migranti spesso raccontano una forma di razzismo espressa attraverso il linguaggio, e ancora più specificamente attraverso la discriminazione linguistica, che si realizza mediante la sottovalutazione delle competenze linguistiche dell’interlocutore.

Venendo invece alla generazione di recenti narratori della migrazione, è piuttosto comune che entro i vasti ˗ e meno definiti di un tempo ˗ confini di questa categoria di scrittori, si incontrino figli di individui stabilitisi in Italia venti o più anni fa, e, dunque, nella maggior parte dei casi nati e cresciuti in Italia, con una conoscenza anche profonda e personale del proprio Paese e delle proprie radici culturali ma ad essi in qualche modo elasticamente legati, a causa di una quotidianità spesa in un Paese altro. All’interno di questa varia compagine di autori contemporanei, di cui Lakhous fa parte, è palpabile la libertà della cultura migrante capace di farsi e disfarsi, esercitata sul duplice fronte della cultura di appartenenza e di quella di approdo

È in questa  produzione che si riscontra un uso più significativo del plurilinguismo, spesso nutrito di implicazioni sociali e politiche. Come nel caso del romeno Butcovan, che conferisce una valenza squisitamente politica al dialetto dei suoi personaggi, come nell’esempio del datore di lavoro del protagonista, nel romanzo Allunaggio di un immigrato innamorato: «Mi laùri e paghi i tass, i terùn ciapan i danèe!».

Il caso di Lakhous appare differente: il valore del suo dialetto sembra più concretamente ascrivibile a una volontà di completezza sperimentale letteraria, tutt’altro che socialmente impegnata.

L’espressionismo dialettale poetico e narrativo ha seguito, nel coso nel Novecento, una linea evolutiva ballerina e lunatica, grossomodo tracciando un percorso apparentemente “regressivo” dal realismo alla pura astrazione fonetica. Il tutto a partire dalla lezione più alta: quella di Gadda che qui tiriamo in ballo non a caso, poiché – come ha giustamente notato Ugo Fracassa – la sua lezione è costante riferimento per le prove narrative di Lakhous, nonostante una certa resistenza dell’autore a riconoscere tale modello. Contini indica nella deformazione la cifra dell’espressionismo gaddiano ed attribuisce a tale deformazione due funzioni: una meramente linguistica ed un’altra che è alla prima sottesa e sovrana e che si traduce in un concetto più altamente filosofico, implicito al discorso letterario, quello della modificazione che ogni sistema di relazioni subisce nel flusso eracliteo dell’essere. Volendo verificare, a partire dal canone, questo duplice piano, di tecnico intervento sul linguaggio convenzionale da un lato e di esercizio di dinamismo esistenziale dall’altro, potrà essere rintracciato, nella produzione migrante degli ultimi anni, un discreto campione di più o meno consapevoli prove deformanti. Sarà bene però sottolineare quanto queste prove si presentino tra loro isolate, salvo rari casi in cui la volontà espressionistica domini l’intero testo, casistica riscontrabile per lo più in testi brevi.

Di quale espressionismo è nutrita la voce dei narratori migranti contemporanei? Da quale giusta prospettiva d’indagine può essere colta la ragion d’essere del plurilinguismo sperimentale che la anima?

Va tenuto a mente che nessuno degli scrittori in questione ha aderito ad alcun comune manifesto che consenta di stabilire con certezza come una nozione come quella di espressionismo possa (o non possa?) avvicinarsi all’interpretazione della produzione narrativa in questione. E cioè gli intenti che soggiacciono all’osservazione così da vicino della lingua italiana e dei suoi usi contemporanei può derivare da motivi tra loro distanti e pervenire ad esiti altrettanto eterogenei.

Ora veniamo al caso di Lakhous: scrittore migrante, di origine algerina, che arriva in Italia una quindicina di anni fa, prende seconde lauree, scrive un romanzo subito caso editoriale e poi riuscitissima pellicola. Lakhous, ormai praticamente italiano, si cimenta nella seconda opera, Divorzio all'islamica a viale Marconi, ma nel farlo non si accontenta più dello standard – per quanto anche in Scontro di civiltà l’uso del linguaggio fosse tutt’altro che banale – e sceglie di misurarsi con il dialetto, non proprio, con la parlata regionale. Si fa più italiano degli italiani e conferisce al protagonista una cadenza siciliana che ben si amalgama al suo camilleriano profilo di detective, lo stesso fa con gli altri personaggi, valga per tutti l’esempio dell’affittacamere romana che si esprime in un vernacolo rozzo e furbone, romano per eccellenza.

Oggi questo giallo accattivante ambientato a viale Marconi, una zona di Roma forse ancora poco battuta dalla narrativa – a differenza di quella del quartiere Esquilino, il multietnico per eccellenza – e scelta per la sua Little Cairo (mi domando se esista davvero e con dispiacere rifletto sul fatto che abitiamo in città le cui realtà sociali spesso ci sono del tutto sconosciute) dimostra che gli esperimenti sono terminati.

In Divorzio all’islamica a viale Marconi una delle voci narranti, quella di Issa, si esprime in un perfetto standard intervallato da interferenze sicule, il che però non sfocia mai in un vero e proprio dialetto, seppur mitigato ai fini della comprensibilità, ma conferisce al testo una caratterizzazione più efficace. Ebbene il risultato talvolta resta un poco in superficie, cioè accade di percepire le parole regionali come inserti non veramente amalgamati allo spirito del testo, sembra che il personaggio conosca il siciliano ma non pensi in siciliano. Così dei lemmi come “fìmmine”, “minchia” e “fotte”, intervallati da lunghi paragrafi in lingua standard restano un poco isolati tra di loro, come l’inversione di soggetto e verbo che mima la tipica sicilianità testuale. Alla questione si somma il racconto a tratti illustrativo e didattico sul mondo arabo-musulmano, d’altronde perfettamente armonico con quello della voce narrante femminile, nella quale ho scorto – forse a torto – l’eco del celebre Matrimonio combinato di Divakaruni.

Ma quella che Lakhous con tanto impegno ha composto è la lingua dell’altro, la cui definizione ci viene da un bellissimo saggio di Derrida:Il monolinguismo dell’altro. A partire dall’assunto che la lingua non può mai essere in un rapporto di appartenenza o di identità con l’individuo che se ne serve, Derrida, attraverso una riflessione che procede per tasselli contraddittori e paradossali, afferma che la lingua che l’individuo parla non è mai la propria, ma è la lingua dell’altro. Giunge così a teorizzare lo stato di «alienazione non alienazione come proprietà perduta per sempre (à jamais) o di cui non ci si potrà riappropriare mai (jamais)».

Al di là dell’applicazione, più o meno consapevole, di questa nobile lezione, questo romanzo romano piacevole e teatrale ha compiuto un passo, curioso, sincero, forse furbo, nella direzione della ricerca multilingue, ma ha forse mancato la mira, mantenendosi sul piano mimetico e descrittivo che l’alterità non dissimula, ma accentua. Speriamo di non dover attendere una nuova generazione di scrittore per il passo successivo.