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La storia della madre che si perse nel futuro

Autore: Stella Cervasio
Testata: La Repubblica - Napoli
Data: 11 novembre 2006

E' come se Elena Ferrante avesse scritto un unico libro. Una storia che si può vedere da diverse angolazioni e di cui quest' ultimo pezzo, La figlia oscura, è il più bello.

Una donna lasciata dalle figlie che raggiungono il padre in Canada, spia un rapporto madre-bambina sulla spiaggia dove si sta riposando dalle sue fatiche di donna per cercare - come si usa dire - di ritrovarsi. La scena unisce donne presenti, passate e future, come sono Leda, le sue figli assenti, Nina e sua figlia Elena, con le sue prove generali d' affetto materno espletate nei confronti una bambola brutta e coperta di segni di biro. L' oggetto che incarna l' amore di madre e figlia, con cui Leda le ha viste giocare irritandosene, la bambola, la indurrà a far vagare la memoria nel rapporto passato con le sue ragazze.

Quella bambola finirà per essere rubata e nascosta, come a volersi riappropriare di un catalizzatore, di un simbolo che in quella lingua obsoleta che la voce narrante dice di amare di più, il napoletano "tenero del gioco e delle dolcezze", si chiamava "mammuccia". Intorno a quell' essere di plastica si formano concrezioni di amore, disamore, le prime incomprensioni di un rapporto complesso e difficile fin dalla notte dei tempi.

Leda ha abbandonato le sue figlie quando avevano quattro e sei anni, lasciate al padre - con una parentesi dedicata a Napoli, città che Leda (anche quella) ha abbandonato per Firenze. Ora le figlie hanno abbandonato lei, che le ha così "perse nel futuro", anche se non prova dolore.

In questa calma tempesta degli affetti, qualcosa ci riporta al personaggio di Laura Brown, la casalinga repressa che nel film The hours legge Mrs Dalloway, amaro capolavoro di Virginia Woolf, e abbandona il figlio destinato quarant' anni dopo a morire di Aids nella storia-cornice dell' omonimo libro di Michael Cunningham. Ora che non le ha più, Leda passa in rassegna le cattiverie fatte alle sue figlie. Cattiverie servite a contraccambiare un gesto di bambina irriguardoso o un piccolo egoismo, di quelli comuni tra figli e genitori. Un atto che a lei sembrava di ingratitudine somma, mentre la mamma toglieva tempo alla sua affermazione nel lavoro per dedicarsi a quei piccoli esseri che aveva messo al mondo. La sua prole l' aveva lasciata al padre "per stanchezza", un po' come aveva fatto Laura Brown, anche nella magistrale interpretazione di Julianne Moore, ma poi "sempre per amor mio", e non per altruismo materno, era tornata.

Elena Ferrante continua a restare lontana dai vortici mediatici, nascosta dietro una normalità che suona ancor più misteriosa, e buon per noi, se questo dà libri come La figlia oscura. Ancora più sentito e profondo, questo romanzo che si legge in tre ore: perché, anche se non siamo stati "madri", tutti però siamo stati figli. E per dircelo, l' autrice di I giorni dell' abbandono, La frantumaglia e L' amore molesto che ispirò il più bel film di Mario Martone, affina una lingua compiutamente letteraria ("quel suo voler bene gassoso" riferito alle coccole che la bambina fa alla sua bambola; "mi sorrise con uno sguardo smerigliato": poco oltre smerigliato sarà il vetro che, sbattendo la porta in un momento di sproporzionata rabbia Leda farà cadere addosso a una delle sue figlie).

Ma una lingua che serve anche a creare identità tra i personaggi: Lenuccia, Nina, Leda, Nani (bambina, madre, protagonista e bambola) nell' assomigliarsi foneticamente in quel gergo degli affetti, sono in fondo i nomi di una sola persona, riflessa con tutte le sue universali contraddizioni nel rapporto-chiave del mondo.