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Risorse dell'anima

Autore: Giovanni Pacchiano
Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 12 novembre 2006

In virtù dell’anonimato dell’autore, coperto dallo pseudonimo di Elena Ferrante, godiamoci in santa pace, non disturbati da interviste, comparsate televisive eccetera, il suo terzo e notevolissimo romanzo, La figlia oscura. Scritto, come sempre nella narrativa della Ferrante, con linguaggio di apparente semplicià tuttavia sorvegliato, di non esibita raffinatezza, abile nel riprodurre immediatezza e violenza della vita interiore.

È la storia di una donna. Leda, 48 anni portati benissimo, napoletana trapiantata a Firenze, prof di Inglese all’università, dove non ha fatto una gran carriera ma sgobba dodici ore al giorno. Bella donna, con un corpo magro, ha divorziato dal marito, Gianni, che si è trasferito in Canada, e ha due figli, Bianca e Marta, poco oltre i 20 anni, che, al momento, si trovano oltreoceano col padre, e sembrerebbero intenzionate a rimanerci, dando notizie di sé con qualche rara telefonata in cui mimano scherzosamente la pesante cadenza partenopea che la mamma ha cercato di cancellare negli anni e di cui si vergogna.

Lo notiamo sin dall’inizio: la Ferrante sa dre spessore emotivo al racconto, che ha come voce narrante la stessa Leda, strutturandolo su più piani convergenti. Si intravede, di fatto, un momento a posteriori della narrazione (narrazione come liberazione e, insieme, dichiarazione di colpa), un “dopo” dall’alto del quale la protagonista rievoca tutto ciò che le è accaduto durante una vacanza estiva sulla costa ionica, al mare, da sola. Una pausa che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere priva di scosse. Principiando tuttavia il racconto stesso da quell’incidente d’auto imprevisto, assurdo, che ha concluso la vacanza. E tornando poi indietro, a rammentare ordinatamente; tuttavia sovrapponendo al ricordo della sua avventura al mare brandelli di un passato più remoto, pezzi della sua vita che si è, in questa circostanza, ritrovata a rivivere: il rapporto con le figlie, convivenza e screzi col marito, una separazione e un ritorno (e il senso di colpa per aver lasciato le figlie, ancora piccole, a Gianni), fino, da ultimo, al divorzio.

E, ancora più indietro, il rapporto con sua madre, di impossibile emulazione, di frustrata vicinanza (“Lei sprigionava un calore vitalissimo, io invece mi sentivo fredda come se avessi le vene di metallo”): inadeguata, la figlia, rispetto al suo “vapore fatato”. È il fascino maggiore del romanzo: perché accade che chi legge percepisca con altrettanta forza emotiva la perentoria simultaneità con cui presente e vissuti pregressi cobaciano, si rafforzano, disturbano, fanno del male. Regredire è il pericolo per questa donna forte e fragile, che si è plasmata da sé, insofferente di un’esistenza chiusa, di una città altrettanto segregata; alla ricerca, legittima e velleitaria insieme, di autoaffermazione, successo, un po’ di denaro che permetta qualcosa in più della sopravvivenza. Madre affettuosa e tormentosa e, nel contempo, “figlia oscura”. Ma è lei a volersi cacciare, durante la vacanza, attraverso un gesto impulsivo, immotivato, in una faccenda che le dà angoscia…

E torniamo alla trama. Seconda metà di luglio. Arrivata al mare, affittato un appartamentino a poco prezzo, Leda trova una spiaggia che le piace, oltre la pineta. Ed è lì che il caso le fa incontrare una chiassosa famiglia napoletana, anzi, un clan, forse un po’ permale (si sente aria di camorra in giro). Dove spiccano, peraltro, l’avvenenza e la grazia di una giovane donna, Nina. Un’anomalia – così sembra a Leda – in un gruppo volgare di gente obesa, dai lineamenti pesanti, arrogante e invadente dietro la maschera di una paciosa bonarietà. Mentre è anomale, per altro verso, anche la bimba (tre-quattro anni) di Nina, Elena. Che ha qualcosa di “sbilenco”: forse una tristezza infantile o una “malattia silente”. Elena, attaccatissima alla mamma, e a una brutta bambola, che coccola, culla e nutre, e porta sempre con sé.

Ecco dunque una madre, come Leda, che crede – illusa! – di essersi emancipata dal rapporto circolare figlia/mamma/figlie, così come dall’ombra materna e insieme ostile della sua città natale, Napoli, invischiarsi, attraverso la quotidiana frequentazione con Nina – rafforzata da un gesto che la mette in buona luce, l’aver ritrovae Elena, smarritasi sulla spiaggia -, in un’altra storia di madri e di figlie, un clima in cui lei si fa rapidamente coinvolgere. Anzi, ne è parte attiva, sottraendo, spinta da un impulso in apparenza privo di senso, la bambola alla bimba Elena, che è disperata. Continuando la recita anche quando tutto il clan si pone alla ricerca, setacciando la spiaggia, distribuendo volantini…

È il nodo doloroso di una donna che ha amato visceralmente le figlie e le ha abbandonate, di colpo, con la stessa visceralità, e che gioca, qui, nel suo turbato immaginario, il ruolo di figlia (“io stessa da piccola che stavo risalendo dall’oblio”) di Nina – l’ideale narcisistico dell’io -, di madre in colpa di figlie lontane (“non ero fatta per essere madre, dissi a Marta”) e di madre vicaria della bambola. Corpo simbolico degradato, l’analogo dell’ossessione ambivalente di Leda. Portano nel ventre, le donne, e danno alla luce figli che sono parte di sé o materia viva estranea? Mentre Nina, la bellissima, la perfetta, la madre, agli occhi di Leda, esemplare, non è poi così perfetta, se un giorno in pineta… Il lettore vedrà da sé, finale a sorpresa compreso.

Rimandiamo dunque a una trama fitta di eventi, sensazioni, emozioni, resa ancor più suggestiva dall’uso costante del passato remoto, il tempo dell’ineluttabilità: ciò che è già stato fa parte dei territori della nostra anima, è la nostra risorsa e il nostro peso, nessuno, sino alla fine, ce lo può rubare. Come la brutta, amatissima bambola della bambina Elena.