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Ritratti di donne nell'apartheid

Autore: Sebastiano Triulzi
Testata: Il Manifesto
Data: 30 maggio 2006

«La Madonna di Excelsior» Pubblicato per e/o, il romanzo del sudafricano Zakes Mda prende spunto da un processo del '71. A colloquio con l'autore

«L'esperienza ci ha insegnato che la storia appartiene sempre al vincitore. Per troppo tempo la storia del mio paese è stata scritta da altri, ora è giunto il momento per noi di ricostruire il nostro passato». Zakes Mda è nato nel 1948 a Herschel in Sudafrica e il suo itinerario personale, culturale e politico, sembra combaciare perfettamente con la recente storia del suo paese. Poeta, giornalista e drammaturgo, Mda già a tredici anni scriveva poesie e racconti in xhosa, la lingua della popolazione di origine bantu perseguitata dai boeri che spesso è protagonista dei suoi romanzi. Oggi lo scrittore passa metà dell'anno negli Usa dove insegna all'università dell'Ohio, l'altra parte in Sudafrica dove ha dato vita a diversi progetti sociali, dai corsi di scrittura ai malati di Aids, alle scuole di drammaturgia nelle townships. In Italia, dopo Verranno dal mare, pubblicato lo scorso anno da e/o, è ora uscito per le stesse edizioni La Madonna di Excelsior (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, pp. 301, euro 16,50), romanzo che denuncia le amnesie della storia e che è imperniato attorno a un processo intentato nel '71 dallo Stato contro maschi bianchi e donne nere rei di aver violato l'Immorality Act, che vietava rapporti sessuali interrazziali.

«Il passato - osserva Mda, che abbiamo incontrato nel corso di una sua recente visita in Italia per la presentazione del romanzo - non va mai via. Questo vale per tutti, non solo per chi ha vissuto negli anni dell'apartheid: ciascun individuo è il prodotto della propria storia. Per quanto riguarda il Sudafrica, l'apartheid è un bagaglio che molti portano ancora con sé, una corrente sotterranea che attraversa il presente del paese. Se noi sudafricani continuiamo a parlare dei nostri trascorsi è perché essi riemergono nella vita di tutti i giorni, perché è con loro che ci dobbiamo confrontare. Sono convinto che il primo compito dello scrittore sia quello di comprendere i conflitti, siano essi individuali o interpersonali, e in questo senso credo che non ci sia differenza tra l'arte prima dopo l'apartheid».

Anche se ora la sua fama è legata soprattutto alla narrativa, lei ha esordito come autore di teatro, e più volte ha sottolineato l'importanza che hanno avuto per la sua scrittura i testi di Soyinka e di Pinter o la messa in scena di «Sikalo» di Gibson Kente.
Considero il teatro come una forma di critica della società, perché è in grado di portare alla luce temi scottanti e insieme di risvegliare la coscienza di una nazione. E in un periodo di transizione qual è quello che sta attraversando il mio paese, questa funzione politica e sociale del teatro mi sembra molto importante. Del resto, l'amore per la prosa per me è giunto tardi, prima non credevo di essere in grado di sostenerne la lunghezza. Solo all'inizio degli anni Novanta, quando già insegnavo negli Stati Uniti, ho scoperto il romanzo e da allora non ho più smesso di dedicarmi alla narrativa. Sul palcoscenico mi capita di lavorare ormai solo su commissione, come nel caso di un teatro di Amsterdam per il quale sto scrivendo una pièce. In questo ambito continuo invece a essere molto attivo in Sudafrica, dove tengo corsi per i giovani drammaturghi. Anzi, si può dire che il teatro del mio paese passa quasi per intero dalle mie mani.

La letteratura sudafricana ha spesso posto l'accento sulla condizione della donna. Perché?
Come in molti paesi africani e non solo, il Sudafrica è una società prevalentemente patriarcale. Durante l'apartheid le donne erano doppiamente discriminate, in quanto donne e perché nere. Oggi questa forma di oppressione in qualche modo persiste. Ci vuole tempo per cambiare la mentalità delle persone, ma comunque sono stati fatti notevoli passi avanti, in primo luogo dalle donne stesse che non hanno aspettato che i diritti venissero loro serviti su un piatto d'argento, ma hanno lottato e continuano a farlo. Quasi la metà dei membri del parlamento - così come dei rappresentanti del governo - è formata da donne, e la stessa vicepresidente è una donna. La costituzione del Sudafrica d'altronde bandisce qualsiasi discriminazione che sia basata sulla nazionalità, sulla razza o sull'orientamento sessuale: un punto importante quest'ultimo, che non sempre è presente negli ordinamenti politici degli stati.

Nel suo romanzo «La Madonna di Excelsior» ritroviamo una commistione di generi letterari, dal reportage al teatro, dalla tradizione orale alla scrittura figurativa.
Utilizzo diversi generi a seconda dello scopo che voglio raggiungere. Questo romanzo si fonda su un fatto realmente accaduto, sull'accusa mossa a diciannove donne nere della cittadina di Excelsior di aver avuto rapporti sessuali con bianchi da cui sono poi nati bambini meticci. Io mi sono limitato a costruire personaggi di fantasia in modo che interagissero con questa storia, ma gli articoli tratti da giornali che ho inserito nel racconto sono veramente usciti, così come i dibattiti del consiglio cittadino sono tratti da verbali realmente esistenti. L'interazione di temi e stili differenti mi pare un mezzo per far comprendere al lettore che ciò che scrivo è basato sulla realtà.

Ogni capitolo del romanzo ha un sottotitolo e inizia con la descrizione di un quadro. Anche altrove, penso a «Verranno dal mare», la sua scrittura sembra assai legata alla pittura, e in particolare al colore.
Questa attenzione verso l'arte figurativa deriva dalla necessità di costruire una scenografia, uno sfondo che stia dietro l'ambientazione. Mentre scrivevo La Madonna di Excelsior avevo davanti a me i quadri di Frans Claerhout, un prete cattolico giunto in Sudafrica dal Belgio nel 1946; le sue tele primitive mi sembravano gli scenari ideali per raccontare le vicissitudini dei miei personaggi. In realtà, la pittura è stata la prima forma artistica a cui mi sono dedicato: per molti anni non ho fatto altro che dipingere, e ora i colori sono per me un modo per rilassarmi, magari dopo intensi periodi di scrittura.

L'iconografia di questi quadri è però significativa, soprattutto per un pubblico abituato alle modelle di Caravaggio: si tratta infatti di Madonne nere, prese letteralmente dalla strada. Si potrebbe parlare di una rilettura del cristianesimo, anche nei termini di una intraducibilità culturale?
Le figure dipinte da Claerhout sono per lo più nudi di donne nere, donne che venivano anche da villaggi lontani, a volte con i loro bambini, per posare. Da questa situazione reale, davvero sorprendente, ho preso spunto per raccontare la mia storia: e sono contento che si possa trovare un collegamento con la pittura classica, perché questo dimostra che la parola restituisce una corrispondenza fra le varie maniere pittoriche. Ma in assoluto non posso dire se esiste un problema della traducibilità dell'altro. Chi sono gli «altri»? Le donne, gli afrikaaner? Io cerco solo di far uso della mia immaginazione: spetta poi ai critici dirmi se nei miei romanzi sono riuscito a tradurre l'altro nel modo giusto.