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L'unico scrittore buono è quello morto

Testata: Tempo x me - Libri
Data: 9 giugno 2012

L'unico scrittore buono è quello morto di Marco Rossari (e/o 2012) è un libro che va tenuto sul comodino a lungo, centellinato nella lettura, diluito nel tempo. Io ho commesso l'errore di ritenerlo un romanzo, sebbene dalla composizione aforistica e frammentata, e di leggerlo integralmente, senza intervalli, con continuità. Il risultato è che dopo i primi racconti, ho cominciato ad avvertire da una parte un senso di stanca ripetitività e dall'altra una certa sottile irritazione mista a frustrazione di non riuscire, se non faticosamente, a cogliere i puntuti e acuti, compiaciuti e ammiccanti fulmina in clausola. Si evince chiaramente dalla scrittura, intesa come stile e intreccio, che Rossari conosce molto bene il mondo editoriale e letterario, ha una profonda cultura non solo dei testi, ma anche delle atmosfere e temperie culturali. Questa padronanza della materia da un lato illumina i personaggi, tutti scrittori  o presunti o aspiranti tali, ma a lungo andare finisce per apparire autoreferenziale, implicita, per iniziati e a spingersi fino al grottesco e al caricaturale. Il libro è composto da scritti di varia e molteplice natura, da racconti veri e propri, di diversa estensione, a frammenti, aforismi, battute, mottetti, che se creano un piacevole diversivo nell'omogeneità del tema trattato, nella lettura continuata perdono la loro vervè e finiscono per non differenziarsi più gli uni dagli altri, ingurgitati da un vortice in cui il sarcasmo e lo spirito dissacrante lascia il lettore, soprattutto quello appassionato come me, disorientato e ferito.

Tanti gli spunti interessanti sul mondo editoriale, sui comportamenti sociali, sugli inganni mediatici, tracciati in un panorama vastissimo della letteratura, anche se è il novecento e la contemporaneità a prendere maggiore spazio.  Memorabili e stranianti i ritratti degli scrittori famosi: Tolstoj, Joyce, Shakespeare. Indiretti ma pungenti quelli di Kafka, Bukowski e Kerouac. Intrigante la figura del traduttore, dal nome parlante di Girolamo. Incisivi alcuni ritratti di scrittori anonimi, ma identificabili e classificabili per categorie e stereotipi.

Tutti questi innegabili elementi positivi sono sempre ammantati dall'ironia, che da leggera ed esilarante, si fa sempre più greve e acre, come in Nascita e morte dell'ultimo beat in cui il tono è fin troppo dissacrante e in Uno scrittore plumbeo, in cui si ironizza con acredine sulla cultura terroristica, che mi sembra oggettivamente poco opportuno in un paese in cui non si sono ancora fatti i conti con quell'amara e tragica pagina della storia italiana né chiarite e ammesse le responsabilità di una certa fetta di intellettuali.

Quello che si apprezza nel libro è la felicità lessicale, la vasta gamma di vocaboli, presi da ogni livello, dal parlato all'aulico, particolarmente in un momento in cui la lingua italiana, soprattutto nella scrittura narrativa ma ahimè non solo, appare appiattita su un gergo sbiadito e semplicisticamente omologato, medio e pulito.

Un vero piacere articolare sulla lingua e far rimbombare nella mente un passo come questo:

Adesso questo libro è diventato una maledizione: parlandone con un editore qualche tempo fa, lui mi ha detto che la cosa più importante era non venderle come poesie. Un paradosso.

Minaccia implicita: se no, finisce che non le compra nessuno.

E allora come si possono vendere queste...queste...sssh...qualcuno potrebbe sentire. Canzoni? Canzonette? Strofe? Oppure no. Aforismi? Pensieri? Riflessioni? Rime? No: con rime ci beccano subito. Strambotti? Così pensano che sia un libro sulla vela. Dài: intemperanze, mottetti, battute, motteggi, canti (aridagli), ispirazioni, liriche, satire, ironie, falsetti, fantasie, componimenti, allegri, allegretti, andanti con brio, immaginazioni, inezie, cosucce, stupidaggini, facezie, myricae, nugae, xenia, ossi di seppia, relitti del mare, avanzi di galera, rifiuti tossici, fuffa, cacca, cacchine, peti, stronzetti, merda. Poesie di merda. Carino, ma non funziona. Passi per merda, ma togliamo quell'altra parola.

Oppure sborra. D'altra parte una lectio vuole che il termine venga da borra (dal latino burra) ossia “cascame di lana, scarto di lavorazione”. E visto che la poesia viene trattata come uno scarto, per quanto rigenerante...

Astrazioni, vagheggiamenti, trasporti, oblii, zufoli, nuvole, correnti, parapendii. Comiche, battute, frizzi, lazzi, scazzi, pacchi, pacche sulla spalla, queste poesie sono dei buffetti sul mento, degli ammicchi, delle strizzate d'occhio. Allusioni, inviti, intese, proposte, avance, leccate, orgasmi. Sottotitolo: Amplessi e sonetti. Sballi e ballate (“così vendiamo?”). Quartine, epigrammi, limerick, nonsense, giochi di parole, calembour, equilibrismi, organetti, capriole, salti mortali, veroniche. Potremmo sottotitolarle racconti brevi, minimal, una frase un rigo appena, romanzo in versi, ma in versi dev'essere scritto piccolo piccolo. Oppure pinzillacchere, idee balzane, follie, mattocchiate, frilli di grulli, trastulli, deliri, elettroshock. Vediamo, ci sarà un modo per venderle. Storie, ipotesi, dicerie. Dài, senti come suona bene: Un libro di storie. Tutti amano le storie. Le storie ci salveranno la vita. Non sei ancora del tutto fregato se hai ancora una buona storia. No, questa l'ho già sentita. Chiamiamolo cazzeggi, stronzate, boiate. Un libro sì di amori. Un libro di donne. Un libro di motori. Uno stupidario. Un parolaio. Un abbecedario. Ci sarà ancora qualche analfabeta in questo paese! Un pugno nello stomaco. Una mossa di judo. Un uppercut che nemmeno lo vedi. Oppure Sputi e barricate. Timori e tremori. Biglietti e telegrammi. Saluti e baci. Baci e abbracci. Abbracci a tutti, a casa stanno bene? Bene, ho trovato lavoro, ce la faccio da solo, no non scrivo più poesie. Bene Massimi', sto contenta per te.