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Una bella storia

Autore: Luca Crovi
Testata: Tutti i colori del giallo
Data: 1 ottobre 2012

All’anagrafe è registrato come Piergiorgio Pulisci ma ha scelto di siglare con lo pseudonimo di Piergiorgio Pulixi il suo ultimo romanzo “Una brutta storia” (Edizioni E/0) che prosegue il suo percorso noir iniziato con “La croce incarnata” e proseguito nei progetti legati ai Mama Sabot raccolti in “Perdas de fogu” e “Donne a perdere”. “Una brutta storia” è un romanzo feroce e spietato sul mondo della polizia, raccontato dal suo interno con una forza narrativa che rimanda ai classici di Ellroy, Vachss, Waumbaugh, Raymond ma anche anche al cinema di Olivier Marchal. Un libro che racconta la storia di una famiglia-banda di poliziotti della narcotici abituato a sopravvivere a tutto e a tutti. Ma lasciamo che sia Piergiorgio a guidarci fra le pagine di questo suo appassionante noir.

La prima cosa che mi ha colpito del tuo romanzo è la copertina animalesca, che reazione hai avuto vedendola? Quanto rispecchia secondo te il senso della storia e quanto invece la trovi straniante?

In realtà l’idea nasce proprio dalla suggestione di Colomba Rossi, direttrice della collana Sabot-age che ospita il libro; entrambi volevamo palesare sin da subito il grande conflitto esistente tra i due protagonisti, il poliziotto Biagio Mazzeo e l’ex professore di filosofia e mafioso ceceno, Sergej Ivankov. Ci piaceva l’idea di restituire sin da subito l’idea di questo confronto quasi epico tra questi due moderni Ettore e Achille. La pantera è il simbolo della polizia nel libro, il lupo rappresenta la fierezza e il clan dei ceceni. Il fatto che si fissino come se si guardassero allo specchio lascia intravedere anche una certa complementarità tra i due personaggi, ma questo lo si scopre man mano che si va avanti nella lettura.

In Italia si parla raramente di corruzione dei membri delle forze dell’ordine, tu invece ne hai fatto un punto nodale del tuo romanzo?

Sì, è un argomento quasi tabù, nonostante in tutti i paesi d’ Europa e non, si parla senza problemi di questa situazione; da noi invece c’è sempre una certa ritrosia a parlarne, quasi non volessimo rompere l’illusione del “proteggere e servire” dei nostri tutori dell’ordine. In realtà il problema c’è eccome e lo stanno a testimoniare il Caso della Uno Bianca, i carabinieri corrotti del caso Marrazzo che sembrano usciti da un libro di Ellroy, il passato oscuro della Sezione Narcotici della Questura di Genova, i cinque poliziotti arrestati a Bologna in una settimana qualche mese fa, insomma gli spunti sono tanti. Come scritto però nei ringraziamenti alla fine del libro, sono fermamente convinto che la maggioranza dei tutori dell’ordine siano onesti e integerrimi nel loro lavoro che svolgono con penuria di mezzi, quasi abbandonati dalle istituzioni. A queste persone va tutto il mio rispetto e ammirazione.

Ci sono autori che credi ti abbiano avvicinato in qualche modo a questo mondo oscuro delle forze di polizia?

I riferimenti letterari che mi hanno in qualche modo ispirato sono tantissimi. Andrew Vachss, Hugues Pagan, Ellroy, Derek Raymond, Carlotto, Mauro Marcialis, Edward Bunker, Jim Thompson, Richard Stark, Ed Mc Bain sono di sicuro quelli che hanno sperimentato in modo eccellente questo tipo di narrazione, andando a raccontare la metà oscura delle forze di polizia. D’altra parte Piergiorgio Di Cara, Maurizio Matrone, a suo modo Michele Giuttari, Giancarlo de Cataldo e tanti altri scrittori che sono o poliziotti o magistrati, sono stati degli irrinunciabili grimaldelli per entrare in quel mondo con un’ottica diversa. I riferimenti letterari extra mondo della Polizia, sono infiniti e vanno da Euripide a Dumas, passando per Omero e Don Winslow, per arrivare a James M. Cain e Calvino.

Mi viene spontaneo chiederti se sei mai stato un fan del serial “Braquo” e della produzione cinematografica di Olivier Marchal, regista che negli ultimi anni ha letteralmente rivoluzionato il genere noir francese al cinema?

Ho adorato la prima stagione di “Braquo” e ora mi appresto a seguire la seconda. Olivier Marchal è in assoluto uno dei miei idoli. Alcuni suoi film come “36 Quai des Orfèvres” e “L’ultima missione” mi hanno segnato l’anima, e hanno donato nuova – velenosa – linfa alla mia concezione di noir. Lui è un vero maestro. A livello di ispirazione per “Una brutta storia” lui ha sicuramente avuto la sua parte soprattutto con i film, perché “Braquo” ho iniziato a seguirlo quando ormai il libro era terminato; (a livello si serie tv mi hanno sicuramente più influenzato “The Shield”, “NYPD Blue”, “The Wire” e “I Soprano”). Per quanto riguarda “Braquo” e “Una brutta storia”, devo dire che le storie hanno molti punti in comune soprattutto questo senso di fratellanza e gruppo tra i protagonisti, e spero col romanzo di essermi anche solo lontanamente avvicinato a quanto Marchal è riuscito a restituire ai suoi spettatori.

Derek Raymond sostiene che  ”lo scopo del noir è mostrare tutta la merda che lo Stato, come una vecchia domestica isterica, cerca costantemente di nascondere sotto il tappeto”.   Che ne pensi?

Che ha pienamente ragione. Se scrivi di noir in qualche modo devi sporcarti le mani. Dovrai insozzarti, fare un lavoro che nessuno vuole fare perché c’è il rischio di vendere poco, attirarti antipatie, passare per l’autore scomodo che va sempre controcorrente e tante altre cose. Io invece credo che il noir sia sempre un atto d’amore e di coraggio. Un atto d’amore verso l’essere umano in generale, perché raccontando la sua discesa agli inferi si vuole in qualche modo accompagnarlo non lasciarlo solo in questo gorgo di perdizione. Fregnì, Izzo, Willocks, ma gli stessi Sofocle, Eschilo e Shakespeare – a mio avviso – sono e sono stati bravissimi a dare questo senso di pietas ai loro personaggi e alle loro opere. Un atto di coraggio perché oggi la verità si può dire solo in questo tipo di romanzi senza il rischio di beccarti un proiettile alle spalle.

Sempre Raymond sostiene che “La disperazione è l’anima del noir che l’ha sempre saputa riconoscere negli altri. Il noir è la risposta della letteratura a quelli che sono sfruttati o trattati ingiustamente e morirà soltanto quando tutti avranno lo stesso diritto di vivere: allora non ci sarà più bisogno di lui”. Quanto i tuoi personaggi sono davvero dei disperati?

Guarda io a questo proposito seguo la scuola di uno scrittore straordinario come Andrew Vachss, il quale sostiene che è la società a creare i mostri, spesso le famiglie, ma i mostri non nascono mostri tout court, lo diventano per fattori come ambiente, educazione, famiglia, scuola e società. Detto questo il mio protagonista, Biagio Mazzeo, è il risultato di questi fattori, è la somma delle sue scelte che è stato costretto a fare per sottrarsi a una situazione famigliare tremenda. Ma è anche il violento prodotto dei suoi desideri e delle sue ambizioni, della sua voglia di riscatto. In questo libro c’è una frase che dice più o meno così: sei libero di scegliere, ma non sei libero dalle conseguenze delle tue scelte. Sintetizza bene ciò che è la filosofia e la disperazione che permea tutta la storia; la disperazione sta nelle conseguenze, nei danni collaterali di scelte devastanti che hanno fatto i personaggi per sedare i loro demoni interiori. La sua disperazione in realtà è il suo carattere, il suo fato, che lo costringe a perseguire desideri che potrebbero ucciderlo.

Ci descrivi un po’ Biagio Mazzeo?

Biagio Mazzeo è un poliziotto duro, violento, che crede che la distanza più breve tra due punti sia una linea retta, anche nella giustizia. Anzi, soprattutto. E per seguire quella linea retta non si fa scrupoli nell’usare i pugni, le armi, le minacce, i ricatti, e i soldi (il tesoretto) che ha messo insieme alla sua “famiglia”, un gruppo di circa venti poliziotti tutti appartenenti alla Sezione Narcotici di una metropoli italiana che hanno valicato la linea della giustizia. È un uomo carismatico e affascinante nella sua aura di violenza, ha sempre la battuta pronta ed è in qualche modo l’amico che tutti vorremmo avere quando c’è da risolvere un brutto problema in fretta e una volta per tutte. Le donne ci vanno pazze perché è il classico cattivo ragazzo, ma ha anche una parte molto affascinante e tradizionalista che è quella del patriarca che rivela solo con la sua famiglia: con loro è estremamente generoso e protettivo, si ricorda dei compleanni e degli anniversari di tutti, figli di colleghi, mogli e amanti. Tre donne in particolare se lo contendono.  Il suo sogno è scisso tra l’avere una famiglia perfetta e il prendere il controllo del narcotraffico nella sua città. È osannato e protetto dai vertici del dipartimento nonostante i metodi violenti perché porta sempre a casa il risultato. Il suo passato è pieno di ombre e segreti e quando emergeranno nella storia, Biagio farà un bel tour panoramico all’inferno.

Avremo occasione di reincontrare lui e i suoi soci prossimamente?

Sì, ho concepito nella mia mente questa saga criminale come una sorta di serie tv con le sue diverse stagioni. Una brutta storia diciamo che è la prima. Ora sono a lavoro sulla seconda serie, che spero uscirà nel 2013, editori permettendo.

“Una brutta storia” è nato sull’emozione dei fatti di un terribile fatto di cronaca, ce lo puoi raccontare?

Stavo cercando materiale per un altro romanzo quando sono incappato in un articolo interessante: sedici poliziotti tutti appartenenti alla stessa Sezione erano stati arrestati per associazione a delinquere in un colpo solo; erano in attività da dieci anni e tra loro si era creata una sorta di dinamica clanica e familiare. Da qui mi sono documentato e ho cercato di capirne di più. Qualche giorno dopo ho realizzato che questa storia poteva sposarsi con l’idea che avevo da tempo di fondere il noir con l’epica e la tragedia greca, la drammaturgia e il peso del fato di Shakespeare e il feuilleton di Dumas e Dickens; tutto questo con un ritmo e una narrazione fortemente cinematografica. Dopo qualche mese stavo già scrivendo “Una brutta storia”.

Preferisci di più scrivere di più i dialoghi, le scene di descrizione dei personaggi o quelle d’azione?

I dialoghi mi piacciono da morire. Sono un grande fan di Elmore Leonard, Ed Mc Bain e Charles Willeford, che sono dei dialoghisti eccezionali, e ho sempre desiderato scrivere dei dialoghi così verosimili come i loro. Nei tre anni di stesura ho scritto e riscritto le parti parlate fino a diventare un maniaco e a saperne interi brandelli a memoria, perché secondo me rappresentano la vera essenza dei personaggi.

Quanto trovi che sia importanti partire da inchieste per poter scrivere buone storie noir?

Venendo dalla scuola di Massimo Carlotto, e portando avanti la poetica che lui ci ha insegnato, direi tantissimo, basilari per portare avanti questo tipo di narrazione.

Quanto pensi di essere cresciuto nel tempo assieme al Collettivo Sabot?

Tanto. Avere un maestro come Carlotto è un privilegio. Cresco anche solo chiacchierando con lui non solo a livello letterario ma anche umano. La sua sensibilità trascende i libri e i romanzi, e raggiunge una comprensione e una capacità di lettura dell’essere umano che mi lascia ogni volta senza parole. Con gli altri ragazzi, poi, il confronto è così serrato e continuo nell’elaborazione delle trame e dei personaggi, che la crescita è inevitabile. Tra poco tornerò in libreria anche con loro, con un bel progetto sul narcotraffico, ambientato in Spagna. Una storia stile Il Padrino che sono certo piacerà ai fan di Carlotto e del noir mediterraneo.