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A tu per tu con... Valerio Nardoni

Autore: Cecilia Oliva
Testata: Gli Amanti dei Libri
Data: 20 novembre 2012

Valerio Nardoni, critico e traduttore di letteratura spagnola, ha esordito recentemente anche come romanziere. Abbiamo avuto l’opportunità di intervistarlo per capire come è nata l’idea di scrivere un romanzo noir e per osservare più da vicino l’ universo creativo dell’autore.

Capelli blu è un romanzo molto affascinante, in cui il sogno sembra spesso contaminare il terreno sicuro della veglia. Ci può raccontare come nasce questa ispirazione?

Come domanda di apertura – beh, prima di tutto lasciate che ringrazi per l’apprezzamento e per l’interesse, mi fa molto piacere naturalmente – non è tra le più facili, almeno per me, in quanto non credo che sarei in grado di definire il “terreno della veglia” come “sicuro”. Capelli blu è un romanzo che tenta di affondare il coltello proprio in questa piaga, che nella vita di un numero sempre maggiore di persone si sta a poco a poco infettando: quella dell’insicurezza circa la propria vita, non solo futura – attenzione – anche passata. Questo è secondo me il punto: quello che abbiamo fatto, che abbiamo imparato dai nostri genitori, quello per cui ci siamo battuti sembra che non sia riuscito a raggiungere il nostro presente, che sia rimasto indietro, come sognato appunto. Dobbiamo reinventarci ogni giorno, ma non sempre è facile come dirlo. Per esempio io sono laureato in letteratura spagnola, non avrei problemi a fare il pizzaiolo, ma davanti a me c’è una fila di persone che nei molti anni che ho dedicato alla Spagna ha fatto ottime pizze, mentre io non saprei neppure stendere la pasta… In un certo senso, si può dire che Capelli blu rappresenti il mio tentativo di esprimere questa smagliatura del nostro tempo.

Il romanzo esibisce esplicitamente il suo legame con il mondo del cinema: le didascalie che aprono ogni capitolo, le varie canzoni citate che fanno da colonna sonora, la tecnica del flashback, i titoli di coda. Il cinema è una sua passione? Ci sono film che hanno ispirato la sua scrittura? Le piacerebbe che Capelli Blu diventasse una pellicola?

È così, il legame di Capelli blu con il mondo del cinema è molto evidente, credo che basti aprire il libro a caso per accorgersene: il fatto è che la storia stessa è vissuta dal personaggio come una sorta di film, come se lui stesso a un certo punto si trovasse, anziché a viverla, ad assistere alla sua vita. È un po’ questa la sensazione che ho tentato di indagare. È vero, poi, che il titolo è più in debito con Blue Velvet di David Linch che non con il verso di Luzi che ho citato in epigrafe (“Ma i tuoi capelli blu dimenticati”), che ho trovato dopo; come è vero che ho iniziato a scrivere il libro su una suggestione di Pulp Fiction. Forse posso raccontarvi un aneddoto: un paio di anni fa ho trascorso un anno in Spagna girando con un furgone Volkwagen insieme alla mia fidanzata: abbiamo registrato 60 videointerviste ad altrettanti poeti di varie città. Non so se anche questo possa aver influito, ci penso adesso per la prima volta. Ad ogni modo, una sera mi accorsi che l’amico che mi ospitava a Madrid (Álvaro) aveva un DVD originale di Pulp fiction, e mi prese voglia di rivederlo, dopo così tanti anni. Ma fu una grande delusione: il doppiaggio spagnolo mi sembrava pessimo (o quanto meno troppo lontano dal mio ricordo anche delle voci dei protagonisti) e nella versione originale inglese non riuscivo a cogliere bene le battute. Decisi di rinunciare: poi, siccome il DVD era originale, mi accorsi che in fondo c’erano degli extra, fra cui un’intervista dove Tarantino raccontava di come aveva messo insieme la storia, prendendo varie storie di per sé insulse e mettendole insieme in un modo significativo. Questo è quello che ho tentato di fare nei due anni successivi di scrittura di questo breve libro. Comunque sia, il motivo del film in Capelli blu non serve per scrivere una sceneggiatura, è un procedimento che ho usato in senso puramente narrativo. In particolare, mi ha permesso di scindere la storia su tre livelli: quello in prima persona, di Jilium che pensa e ipotizza la sua vita e le sue giornate; quello in terza persona, dove il personaggio agisce nel suo mondo ma ne è inevitabilmente plasmato, è comandato, esegue, si adatta, non capisce, eccetera; infine, il piano oggettivo delle cose come stanno veramente, e che a poco a poco inghiottono il personaggio… mi piacerebbe che ne facessero un film, certo, ma forse il regista dovrebbe inventarsi un film a forma di libro per farlo funzionare, non so.

Nella sezione chiamata “Titoli di coda”  l’autore ringrazia molto generosamente coloro che hanno dato il loro contributo alla nascita del romanzo. Il lettore è accolto nel laboratorio dello scrittore, il quale sembra mostrare, in modo del tutto insolito, gli strumenti e i processi creativi che hanno generato l’opera. La scrittura è dunque frutto di collaborazione e scambio?

Questa domanda mi induce a pensare di essere incorso in qualche leggerezza nei “titoli di coda”: tempo fa  ho letto una recensione su Anobii (peraltro molto bella) dove il critico lettore alla fine mi sgrida per aver inserito questa parte dove (secondo lui in modo inopportuno; secondo voi in modo “accogliente”) ricostruisco “la genesi del libro”. In quella parte conclusiva del libro (che aveva nella mia testa anche un intento ironico, nei film è un po’ così, partecipano in tanti e sono tutti importanti, dal regista agli addetti al catering) ringrazio chi mi ha dato una mano nell’editing del libro, non nella sua ideazione. Le due cose sono molto diverse. Ma cerchiamo di sciogliere il possibile fraintendimento: io sono un traduttore letterario, non faccio altro che scrivere e correggere quello che scrivo tutto il giorno, sono inoltre impegnato nell’insegnamento della traduzione; voglio dire che da anni sono abituato a dirigere dei laboratori, a mettere in discussione, stimolare e unire le forze di più persone, così, forse è per me fisiologica e irrinunciabile questa dimensione collettiva e condivisa del testo.

Nel romanzo la linearità temporale e logica viene stravolta lasciando spesso il lettore interdetto. Nei “Titoli di coda” leggiamo che tale struttura frammentata è frutto di una revisione del romanzo, attuata in un secondo momento rispetto alla prima stesura. Ci può spiegare i motivi di questa scelta?

Parlando del senso di incertezza che il libro vorrebbe esprimere e di alcuni modelli o modalità ai quali mi sono più o meno ispirato, ho in un certo senso anticipato la risposta a questa domanda: la struttura frammentata, però, non è successiva alla prima stesura, ne è anzi il nucleo: è la sua messa a punto ad avermi impegnato per moltissimo tempo. Sperimentando questa modalità di scrittura, anziché raccontare un disagio, ho tentato di esprimerlo, di farlo provare al lettore. Ma questo, più che dal cinema, credo provenga dalla poesia: sono un traduttore di poesia più che di prosa. E anche circa la rottura della linearità temporale, non credo di aver preso da Tarantino più di una occasionale suggestione: il mio vero studio sulla struttura narrativa è senz’altro la mia tesi di dottorato, ho studiato a fondo la Galatea di Cervantes, la sua “opera prima”, un libro meravigliosamente complesso di intrecci, scatti temporali, riprese, ecc. Quello sì che è un laboratorio dove è affascinante entrare!

La frammentarietà della narrazione, la personalità irrequieta e turbata di un protagonista sempre in scacco, una visione disincantata della realtà: tutti elementi che riconducono al genere noir. Come si coniuga quest’anima oscura con l’attitudine comica che caratterizza diversi episodi del romanzo?

Se devo essere sincero, prima ancora che una scelta stilistica, alla base di questa ironica anima oscura, credo che ci sia una raffigurazione della mia personalità: l’ironia è parte integrante del mio carattere, così come la personalità irrequieta… e molte volte temo proprio che non siano cose disgiunte. A parte questo, almeno nelle mie intenzioni, e fin dove sia riuscito, l’ironia nel libro serve a raccontare un personaggio credibile, vivo: Jilium è una persona qualunque, non è né un personaggio a tutto tondo come gli eroi dei romanzi ottocenteschi, né una macchietta. Credo che anche noi siamo un po’ così: ci confrontiamo coi grandi temi, ma siamo anche frivoli, forse per difesa, in entrambi i casi.

Come è nostra tradizione, ci piace chiudere le interviste facendo lasciare agli autori un saluto per i lettori. Che messaggio vorrebbe  trasmettere?

Non è un impegno da nulla quello di “trasmettere un messaggio”! Ad ogni modo, se siete arrivati a leggere fino in fondo questa intervista, significa che siete persone attente, che esercitano la loro libertà di lettori e il mio messaggio è molto semplice. Vi dico: “Piacere di conoscervi! Sono anch’io un lettore curioso”.