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Non passare per il sangue, ma per la carne

Autore: Dario De Marco
Testata: Dario De Marco
Data: 22 novembre 2012

Che cosa potranno mai avere in comune una vecchia cretese sorda che respira con un polmone solo e un giovane militare omosessuale specializzato in missioni ad alto rischio? Niente, in teoria. In questo libro, varie cose: innanzitutto condividono la memoria, l’amore per Marcello, dilettissimo nipote di lei, Agar, e prima vera relazione seria per lui, Luca. E innanzitutto per la memoria s’incontrano, perché Marcello è scomparso in Afghanistan e Luca si auto-incarica di consegnare alla famiglia i burocratici “effetti personali”, in pratica una vita racchiusa in una valigetta.

Da lì i due si conoscono e inizia uno strano rapporto, una schermaglia fatta di racconti, confessioni, silenzi. Perché un’altra cosa che condividono è la guerra: Agar durante il secondo conflitto mondiale sta per morire, ma grazie alla sua malattia conosce il futuro marito, un medico dell’esercito italiano (cosa che non le impedisce di aiutare la resistenza nella Creta occupata). I recenti ricordi di amore e guerra di Luca si intrecciano agli antichi ricordi di guerra e amore di Agar, e questi due piani a loro volta s’intersecano con il presente, un presente in cui l’assenza di Marcello pesa intollerabile.

Eduardo Savarese è giovane, magistrato, napoletano, esordiente. Non passare per il sangue è innanzitutto un libro denso: in meno di duecento pagine l’autore riesce a descrivere i personaggi (non solo i due protagonisti) pittandoli con pochi tratti, anzi fa capire come sono facendoli agire; non si arriva a metà del libro e già sembra di conoscerli come parenti. Non è un noir, nonostante appaia in una collana a cura di Massimo Carlotto, e nonostante tutto inizi con un morto, anzi con un cadavere che non si trova. Non è un giallo ma tiene la tensione senza darlo a vedere, e alcuni particolari anche decisivi per capire i rapporti tra le persone vengono dissimulati fin quasi alla fine.

Non è un noir, nonostante il titolo: il sangue di cui si parla non è quello dei morti, è quello dei vivi. Passare per il sangue, spiega a un certo punto la nonna, significa essere legati dal sangue, avere rapporti fecondi in senso letterale, cioè che generano discendenza. È chiaro allora qual è l’ultima cosa che lega Agar e Luca, la più profonda: l’amore omosessuale per definizione è infecondo, non passa per il sangue quindi (e quando Luca le rivela che lui e Marcello stavano insieme, lei anche se ovviamente aveva sempre sospettato ha una reazione di condanna dura, moralistica). Ma anche Agar non è passata per il sangue: all’inizio perché, da giovane, ha temuto e a lungo creduto di essere diventata sterile, il che ha causato le titubanze e i muti rimproveri del futuro sposo, e di conseguenza in lei un rancore verso di lui durato fin sul letto di morte. Alla fine perché la sua discendenza, l’unico figlio della sua unica figlia, si estingue. Ma anche prima, perché comunque la grande pecca di Agar è stata quella di non generare un figlio maschio.

E qui casca l’asino, perché fino a che non passa per il sangue l’omosessuale ok, fintanto che non va bene chi non trasmette i suoi geni, ci posso pure arrivare (a capire, non a concordare), ma quando arriviamo all’erede masculo, alla trasmissione del cognome, è chiaro che stiamo discutendo non di cose ma di parole, concetti, costruzioni culturali. E allora vorrei contrapporre a sangue un’altra parola, che l’autore conoscerà nel suo significato più bello: carnale.

Sangue e carne, già. Ma non è la carne delle bestie (meat), quella che si mangia, bensì quella umana (flesh), quella che si tocca. (Piccola parentesi meta-narrativa: c’era una volta un bambino curioso, che chiedeva Mamma che significa che il venerdì santo bisogna fare digiuno e astinenza?; e la mamma credente e sfuggente rispondeva Digiuno cioè non mangiare, e astinenza dalle carni; e il bambino Ma mamma se uno già non deve mangiare come fa a mangiare la carne?).

Perché sì, il significato principale italiano attiene al senso, al sesso: rapporti carnali, violenza carnale. Ma in napoletano – e in italiano antico, come spesso accade – carnale è usato in un senso molto più vasto, e profondo: si dice di persona schietta, affettuosa in modo prorompente, fisico, uno che non ha imbarazzo, né sottintesi, ad abbracciarti stretto. “E’ ‘nu carnalone”, sentii dire una volta a una ragazza a proposito di un tipo conosciuto da poco, e non è che ci stava provando.

Allora quello che non passa per il sangue può passare per la carne, può essere carnale. Carnale come una relazione (omo)sessuale, certo. Ma carnale anche come un rapporto tra un giovane gay e una vecchia cristiano-ortodossa. Carnale come una carezza che prima indurisce una faccia, e poi fa brillare una lacrima, uno scioglimento.