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Sono un nomade rimasto bambino

Autore: Marco Ventura
Testata: Il Giornale
Data: 28 giugno 2007

Figlio di atei sportivi, lui filosofo e pianista convertito alla fede cristiana (“Ma il mio è il Dio di nessuna religione”), dopo essersi smarrito un giorno e una notte nel deserto dell’Hoggar nel 1989, a 29 anni. Oggi ne ha 47, ma le rotelle mentali sono quelle di un bambino. Conferenziere malinconico ma edificante, narratore leggero e insieme grave come Diderot (il suo autore preferito) Eric-Emmanuel Schmitt spreme bontà dalla tristezza, mette la lingua, la parola, sopra un altare, e decanta dalla realtà storie che vende a milioni di copie.

Il suo libro più famoso, Ibrahim e i fiori del Corano, è diventato un film con Omar Sharif. L’ultimo, Odette Toulemende (e/o, pagg. 163, euro 15), al contrario, da film è diventato una raccolta di racconti. “Ora – annuncia – mi occuperò del potere, della politica, ma a partire dall’etica. Non sono a-politico o anti-politico, però credo che l’etica venga prima della politica. Per fare politica bisogna mettersi nei panni dell’altro e capire che è così facile diventare Hitler, non c’è una gran differenza tra noi e gli altri, tra noi e un mostro come Hitler. Le risposte ai problemi della politica non sono politiche ma culturali, etiche… Dobbiamo condividere i valori per convivere. Le mie riflessioni sulla psicologia, le religioni, le culture, vogliono indicare che pur nella diversità abbiamo qualcosa di universale in comune. Un fanciullo ebreo e un vecchio musulmano possono parlare tra loro?Certo, perché hanno gli stessi problemi e la saggezza è universale”.

Così in Ibrahim e i fiori del Corano. Nel Bambino di Noè dialogano un bambino ebreo braccato dai nazisti e il parroco cristiano che lo nasconde. Altrove, Schmitt dichiara il suo amore per Mozart e Milarepa. E analizza Hitler. La parte dell’altro è la biografia di un Hitler buono, quale sarebbe stato se invece di respingerlo, l’Accademia di Belle Arti di Vienna l’avesse accolto. È rasserenante il diario poetico di un piccolo di 10 anni malato di cancro e della sua amicizia con la “dama in rosa”, una volontaria. “La mia idea di fondo è che ogni giorno è una sorpresa. Lo capii nel deserto, quando mi smarrii per 36 ore senza nulla da bere, da mangiare, o vestiti per la notte. Sono un nomade, il mio luogo non è il posto da cui vengo, non quello in cui mi trovo. Forse è la mia lingua, ma sono anche curioso di frequentare la lingua degli altri”.

Nato nella banlieue di Lione, Schmitt abita a Bruxelles, la considera una città quasi ideale. “La vera città cosmopolita del XXI secolo, europea, dove bisogna sempre scambiarsi qualcosa per coesistere fra diversi”. Schmitt ama viaggiare. Appena può, decolla. In Odette Toulemonde racconta otto storie di donne toste e fragili, che trovano e dispensano amore quando meno il lettore e loro stesse se lo aspettano. La voce di Shmitt ha la musicalità del violino. “Ibrahim e i fiori del Corano nacque dagli incontri con un mio lettore, Pierre Perelmuter, che da bambino, durante la guerra, era stato nascosto da un prete. M’impressionò il dettaglio di quel parroco che si era preso cura non solo della vita dei bambini ebrei, ma anche della loro identità, e perciò aveva deciso di studiare l’ebraico ed erigere una sinagoga nella cripta della chiesa. Lo spunto è reale, anche se il mio editore francese e alcuni critici hanno detto poi che la sinagoga è ‘un’idea tipicamente di Schmitt…’”.

Pochi autori hanno come lui la capacità di mimare la psicologia infantile. “Il bambino è scoparso dal mio corpo, non dalla mia testa, ricordo la familiarità che avevo con la fede, la vita i misteri. Il bambino è ignorante, sa di non sapere”. È un Socrate nato. “La filosofia è la sopravvivenza dell’infanzia in età matura. Le favole sono filosofia, i bambini le apprendono per capire la vita e la condizione umana. Il mio filo rosso è la profondità della vita. In Odette sembra che le protagoniste sappiano tutto di se stesse, dei loro amanti, del loro destino, ma improvvisamente qualcosa le sorprende e la vita le torna indietro. Ho in testa la frase di Nietzsche: il giorno è più profondo di quanto il giorno stesso possa immaginare”.

Come fa uno scrittore triste a dare la felicità? “Se parlando si deprimono gli altri, meglio tenere la bocca chiusa. La tristezza è la base della vita, a me piace di più coltivare la gioia”.

Ancora una volta, la spinta è etica. Schmitt scrive per fare del bene, sebbene la scrittura sia “un processo minore nella storia del mondo, una voce flebile rispetto all’altisonanza della televisione: la mia è una voce sottile, di nicchia, che però ha qualcosa da dire. Noi scrittori siamo senza potere, abbiamo solo la nostra voce”.