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"Cuore Cavo" di Viola Di Grado, tra immaginario dark e purezza

Autore: Lucilia Noviello
Testata: Affari Italiani
Data: 21 febbraio 2013

Come una dea, come un eroe greco, come un poeta, il personaggio di Cuore Cavo, romanzo scritto da Viola Di Grado, Edizioni E/O, è un Giglio per purezza e intenti, soprattutto perché ha deciso di morire. E chi sceglie di non essere in questa nostra strana e inquieta Storia contemporanea, merita una particolare forma di rispetto, privo di giudizi, sospeso. Già creatura poca adatta alla vita, Dorotea lascia l’esistenza terrena ma della vita diviene paradossalmente narratrice e parte intrinseca, viscera indistruttibile, molecola di un tutto che vorrebbe essere il nulla, ma respira dentro chi è restato e prosegue un’esistenza neppure malata o banale, ma così lineare che descriverla diventa un’impresa in cui neppure la letteratura e la fantasia hanno gioco facile. Però la protagonista continua a scrivere perché la sua esistenza è data dal volere della scrittura stessa: continua a comunicare; come se da una parte non riuscisse a lasciare la sua appartenenza, il suo nome che ha senso perché appartenente all’universo dei significati. E tale significato, nelle pagine di Viola Di Grado – così come in tanta, tantissima letteratura contemporanea straniera occidentale – è data, ancora, dalla scrittura stessa. Non ci sono sperimentazioni linguistiche all’interno di questo romanzo; l’italiano è a volte complesso per terminologia e concetti, ma è costruito con sicurezza. E’ l’argomento – la morte e il senso di un’attesa infinita, dilatata e assurda – ruota continuamente intorno a se stesso, in maniera spesso ridondante. Sembra non esserci niente da fare, né per i vivi né per i morti. Si può ascoltare e scrivere – potere della letteratura – ma sono le storie che non esistono più. C’è un destino dal quale distaccarsi appare quasi impossibile: e la morte non è altro che una tappa; e neppure l’ultima. Perciò anche il suicidio, atto tra gli  atti, è privato della sua tragicità, è un  momento in cui prende l’avvio il disfacimento fisico del corpo. Il mondo non può essere percepito perché i sensi non ci sono più. Ma resta il gioco letterario: l’assurdo che, se diventa enunciato, diventa reale.