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Nel nome della madre

Autore: Chiara Marchelli
Testata: Elle
Data: 16 ottobre 2007

L’inizio del libro è folgorante, con un incipit che ti inchioda istantaneamente alla pagina. E così fino alla fine, in un crescendo di emozioni, coinvolgimento, partecipazione. Un romanzo di quelli che quasi si carezzano ogni volta che li si riapre per continuare la lettura. Posto che li si sia chiusi invece di divorarli in un unico respiro.
Sto per intervistarne l’autrice, e glielo dico. Lei esita, poi sorride e mi ringrazia, io aggiungo che ogni figlia, e quindi ogni donna, dovrebbe leggerlo, e a questo punto si imbarazza un po’. È così Alice Sebold, riservatissima. E dire che è un fenomeno mondiale. Il suo primo romanzo, Amabili resti, edito in Italia da edizioni e/o, ha venduto più di due milioni di copie solo in America, un esordio senza precedenti nella storia della narrativa statunitense. Narrava la vicenda di Susie, una ragazzina di quattordici anni violentata e fatta a pezzi, che da un Paradiso molto umano veglia sulle traversie della sua famiglia e del suo assassino.
Ma Alice Sebold aveva già pubblicato un’auto-biografia nel 1999, Lucky (che in Italia è uscita nel 2003 sempre presso e/o), in cui raccontava lo stupro subìto quando aveva diciotto anni e il processo intentato contro lo stupratore. Due storie molto forti, evidentemente legate tra loro, tanto che, scrivendo il primo capitolo di Amabili resti, Alice Sebold si è dovuta interrompere per raccontare prima di tutto di sé, per poter finalmente “liberarsi” e andare avanti. Questo accadeva nel 1995, quindici anni dopo la violenza.
Alice ha una voce calda che pare provenga direttamente dal centro del suo corpo. Nata nel 1963 a Philadelphia, nel 1980 si iscrive all’Università di Syracuse dove, mentre è al primo anno, viene picchiata brutalmente e violentata da uno sconosciuto. Dopo qualche mese trascorso a casa, torna a Syracuse per laurearsi. I suoi studi procedono paralleli al decorso del processo, che vince, dopodichè si trasferisce a New York, dove trova vari lavori per mantenersi e si dedica alla scrittura. I suoi tentativi restano vani, attraversa un periodo di abuso di droghe e alcol e dopo dieci anni si trasferisce nella California del sud, dove lavora come custode in una colonia per artisti. Nel 1995 si iscrive a un dottorato in scrittura creativa alla University of California di Irvine, e proprio in quell’anno inizia a scrivere Lucky. La pubblicazione di Amabili resti le vale il Book Award for Adult Fiction dell’American Booksellers Association nel 2003 e il Bram Stoker Award nel 2002. Per il 2008 è prevista l’uscita del film tratto da Amabili resti, che sarà diretto da Peter Jackson, il regista de Il signore degli anelli.

Oggi La quasi luna, che esce in tutto il mondo a ottobre (in Italia il 16), raccoglie subito nella primissima riga l’essenza di tutto il romanzo: “Alla fin fine, ammazzare mia madre mi è venuto facile”.
Come nei due libri precedenti, la storia decolla senza preamboli, e la narrazione vera è tutta nei due giorni successivi all’avvenimento. In quest’arco di tempo facciamo conoscenza con la famiglia di Helen e, soprattutto, con la madre. Una donna impossibile, malata, che per uscire di casa deve farsi avvolgere in strati e strati di coperte e che, di fronte a un incidente che ucciderà un bimbo del vicinato, non riuscirà a muovere un dito per correre in suo soccorso. Un personaggio estremo, narrato con un senso dell’ironia superlativo e una tenerezza arrabbiatissima e sconfinata. Ma come le è venuto in mente un personaggio del genere? La sua risposta, quieta e asciutta, è perfetta nella sua franchezza: «Io penso che uccidere la propria madre sia un desiderio che tutti, prima o poi, abbiamo provato ». Ridiamo insieme, dico scherzando che il romanzo è la realizzazione di un’inconfessabile fantasia collettiva. «È la visitazione dell’ipotesi “Che succederebbe se…?”, una definizione di libertà rispetto alla figura materna, che è da sempre argomento di mille analisi. Una cosa da cui non puoi mai separarti completamente, qualcosa che forma la tua identità, un amore che uccide».

A ognuno il suo dolore
Un amore che in questo romanzo è deviato dalla malattia mentale della madre, intorno alla quale ruota l’universo del resto della famiglia. Particolarmente dolce è la figura del marito, che si prende cura di lei. Ma anche qui scorre una vena sotterranea, scoperta poco a poco, una specie di distorsione che non offre mai un suono pulito ma ne scava le pieghe più nascoste, oscure, e le rende in tutta la loro umanità. Chiedo all’autrice come mai gli uomini dei suoi libri tentino sempre di curare le proprie mogli o figlie, ma alla fine non ci riescano davvero mai. «Nessuno può risolvere i problemi di qualcun altro», risponde, «c’è una frase che mi piace molto: “O salvi te stesso o non ti salva nessuno”. Purtroppo le aspettative della società, delle donne, degli uomini stessi, perfino dei libri, sono altissime nei confronti delle figure maschili. Pare che stiamo tutti ad aspettare il principe azzurro, ma non è così che funziona». A ognuno il suo dolore, insomma, e la sua salvezza.
E i suoi ricordi, le sue compassioni. Sia in Amabili resti che in La quasi luna i due padri delle protagoniste fanno un gioco con i propri figli che si chiama “Vola!” e consiste nell’arrotolare il lenzuolo e poi lanciarlo per aria in modo che, cadendo, vada a coprire il corpo dei bambini coricati a letto: «Era un gioco che faceva sempre mio nonno…», spiega lei. Le chiedo allora quale ruolo hanno i ricordi personali nella sua scrittura: «Fondamentale. La memoria è il pozzo nel quale tutti cerchiamo le radici della nostra identità e attraverso cui passa ogni processo creativo».
Scrivere per lei è come un dolore, aggiunge: «Quando lo senti, vi presti attenzione. Non sono una che pianifica le proprie produzioni letterarie, il mio è un processo organico, un’idea che diventa viva e che piano piano chiede sempre più attenzione, fino a quando non si impone. Durante l’anno trascorso fra Amabili resti e La quasi luna, l’idea per questo libro è diventata un’ossessione sempre più viva e si è trasformata nel romanzo». Una mancanza di pia- nificazione che però non significa assenza di disciplina. «Non ho una lista di libri da pubblicare, ma un’urgenza a scrivere e una routine di lavoro. Prediligo le ore mattutine, scrivo con regolarità, ma tutto il resto, quello che parte da dentro, ha una logica sua, un suo tempo, che io posso solo assecondare». Parlando di metodo, mi torna in mente che i suoi insegnanti di poesia e scrittura, al college, sono stati Tess Gallagher, Raymond Carver e Tobias Wolff. Una fortuna immensa. «Vero. E in più, incontrarli in quel momento della mia vita mi è servito enormemente: vedere come vivono gli scrittori che stimi è stato davvero educativo ». Le chiedo quindi come, a distanza di anni, viva il ricordo della violenza: «Le citerei una frase se non fosse che non mi piace fare citazioni. Ma gliela cito lo stesso (ride): “Attenzione a quel che scrivi, perché quel che scrivi diventerà la tua memoria”. Scrivere di una cosa del genere è un’arma a doppio taglio: da una parte mi sono sollevata di un peso tremendo, l’ho messo fuori da me, l’ho reso oggettivo. Dall’altra quel dolore è lì, visibile, concreto, nella forma di un libro».

Lucky torna spesso la percezione di un mondo diviso a metà: da un lato le persone che hanno subìto una violenza, dall’altro quelle che non ne hanno mai fatto l’esperienza. «Chi non ha vissuto una violenza non ha idea di cosa significhi e tende a essere diffidente o addirittura spaventato da chi invece la subisce. Le vittime diventano una realtà separata, incomprensibile. È certamente meglio continuare a ignorare che il mondo è pervaso di violenze atroci, ma spesso non ci rendiamo conto che la violenza è molto più diffusa di quanto non crediamo. E guarire è sempre una questione di scelta: bisogna scegliere di tornare dentro quella sofferenza per liberarsene». I dieci anni che ha trascorso a New York sono serviti in questo senso? «A New York conducevo una vita sregolata. Vivevo di lavoretti, non mi è mai venuto in mente di scrivere di quello che mi è successo. Buffo come le cose più ovvie a volte siano quelle che realizziamo con più ritardo. Allora facevo uso di droghe in modo distruttivo per affogare il dolore da qualche parte. Alla fine ho lasciato New York perché non faceva per me. Ci sono cose di quella città che mi mancano ancora molto, ma avevo bisogno di altro, avevo bisogno di lasciarla, e sono andata nel primo posto disponibile».
E così finisce in una colonia per artisti in California, dove fa la custode per 386 dollari al mese e scrive in un capanno senza elettricità. Qui comincia il vero processo di guarigione, (ma «un’esperienza come quella dello stupro ti resta dentro e sarà sempre parte di te»), passa alla University of California, si trasferisce a Los Angeles e, a primavera di quest’anno, va a San Francisco insieme al marito, lo scrittore Glen David Gold. Che conosce proprio a Irvine quando lui, arrivato in ritardo a un corso, le si siede accanto e non riesce a togliersi il casco della moto. Iniziano a chiacchierare e sei anni dopo si sposano.

Gli scrittori e il mondo
Ora Alice Sebold ha una quieta vita di scrittura, attività cui dedica tutto il suo tempo. Dico che è una dei pochi fortunati che possono camparci e lei risponde che se ne rende perfettamente conto. Una conseguenza del successo è che le permette di non dover insegnare o trovare altri mestieri. In quali altri modi questo successo ha trasformato la sua vita? «Poco, in effetti», risponde. «Inoltre non sono molto socievole, non partecipo a cene e feste tra intellettuali, la gente mi riconosce solo occasionalmente, perché magari il mio nome viene notato sulla carta di credito, ma è raro. Io credo che uno scrittore ce la debba mettere davvero tutta per essere infastidito. In realtà, gli scrittori dovrebbero essere invisibili, per poter osservare indisturbati il mondo intorno a loro».
Prima di salutarla, l’ultima curiosità: perché proprio quel finale? Una parte di me sperava in qualcosa di diverso, in una liberazione definitiva. Lei risponde senza esitazioni: «È il personaggio che decide. Il mio desiderio può talvolta essere in conflitto con ciò che il personaggio crea per sé, ma non posso che obbedire e scrivere la sua storia». Come finisce il libro va scoperto leggendolo. Mi permetto solo di aggiungere che Helen è una donna talmente viva, umana, imprevedibile, simpatica e disperata, che l’amaro in bocca mi dura un momento. Poi arriva la malinconia del sapere che era l’ultima pagina.