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"L'integrazione, una sfida"

Autore: Gabriele Santoro
Testata: Il Messaggero
Data: 13 maggio 2013

A pochi mesi dall’ingresso della Romania in Europa, Torino è scossa da una serie di omicidi di cittadini albanesi e rumeni. Sulla scena irrompe il cronista di nera Enzo Laganà che, senza particolari scrupoli deontologici, offre alla città una chiave di lettura: una faida tra clan che ricalca la guerra di mafia dei corleonesi Riina e Provenzano. E poi è alle prese con un’altra vicenda assai spinosa. Il maialino Gino, tifoso juventino doc, ha gettato lo scompiglio a San Salvario. Chi l’ha portato a passeggio e filmato dentro la moschea del quartiere? Amara Lakhous torna a illuminare con la sua penna leggera e ironica le contraddizioni e sfatare i pregiudizi che ostacolano la nostra capacità di dialogo con lo straniero. Il giallo multietnico Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario (Edizioni E/O, 158 pagine, 16.50 euro) racconta frammenti dell’Italia d’oggi, partendo dalle strade di un quartiere che spesso sono lo specchio delle nostre diffidenze ed egoismi.

Lakhous, dopo il successo di “Scontro di civiltà” e “Divorzio islamico a Viale Marconi”, ambientati e radicati nel cuore di Roma, ha deciso di cambiare il suo punto di osservazione sull’Italia e l’immigrazione.
«Due anni fa sono andato a Torino per assecondare le esigenze del personaggio principale del libro. E dopo una settimana con mia moglie abbiamo deciso di trasferirci. Vivo a San Salvario, perché i luoghi sono i veri protagonisti dei miei romanzi. Roma resta il primo grande amore. Anche lì ho messo delle radici profonde, ma mobili, che hanno arricchito il mio percorso».

Perché ha scelto San Salvario?
«È una zona molto particolare, che assorbe strati di varie migrazioni e contiene memorie della città. Uno spazio delimitato tra la stazione Porta Nuova e il parco Del Valentino che non ha smarrito le proprie caratteristiche. Le prostitute mantengono da sempre il proprio marciapiede. E poi si incrociano molti luoghi di preghiera: la sinagoga, moschee e chiese».

Laganà, giornalista sui generis, è il filo conduttore della narrazione e unisce i personaggi nei due piani intersecati della vicenda. Per accontentare la direzione del giornale, inventa di sana pianta un esilarante Riina rumeno e un Buscetta albanese.
«Mi sono accorto che occorre andare oltre lo studio della realtà. Serve affrontare l’immaginario. Spesso la gente è soggiogata da paure senza riscontro o sovrastimate. A San Salvario, come a Piazza Vittorio, ho sentito molte volte l’espressione: “Qui non si può più vivere”. Nel romanzo cerco di ragionare sul ruolo dei media, sulla scelta delle parole, dei titoli che incidono nel costruire rappresentazioni di senso distanti dalla complessità dei fatti».

Il cronista è a sua volta figlio di emigrati. Che cosa l’ha spinta a volgere lo sguardo alla storia delle migrazioni interne?
«A Torino, come nel resto del Nord Italia, l’immigrazione meridionale è ancora una ferita aperta. I calabresi, che arrivarono inseguendo il posto fisso alla Fiat, erano bianchi, cattolici e patirono ugualmente un razzismo e discriminazioni allucinanti. Ricordiamo i cartelli “Non si affitta ai terroni”. È una memoria recente che non andrebbe rimossa, ma elaborata per l’Italia del futuro».

Dal romanzo l’integrazione che rincorriamo però appare un falso mito.
«Avverto una grande confusione su questo tema. In Italia funziona benissimo l’integrazione tra la criminalità locale e quella d’importazione. Mentre gli immigrati che lavorano regolarmente e rappresentano una risorsa importante per il Paese vengono tenuti ai margini della società. Ai loro figli, nati qui, non viene riconosciuta la cittadinanza. Credo nella convivenza in cui ogni cittadino debba prendere e offrire il meglio della propria cultura. Ho rifiutato il maschilismo patologico che caratterizza la mia cultura d’origine e ciò mi avvicina a una questione molto attuale anche in Italia. È la nostra sfida».

L’hanno sorpresa gli attacchi al neoministro Cécile Kyenge? Che cosa pensa del dibattito sullo Ius soli?
«No. Trovo vergognoso il rifiuto aprioristico dello ius soli. Nei quasi vent’anni che ho vissuto qui, ho constatato la profonda fragilità dell’identità italiana. Molti connazionali faticano a riconoscersi negli elementi simbolici unificanti. Italiani non si nasce, si diventa. Non ho ereditato un’identità; l’ho costruita con la lingua in cui scrivo. La lingua è la radice più forte. Il test d’italiano deve essere una prerogativa per la cittadinanza. Ma i ragazzi cinesi di Piazza Vittorio, come i coetanei, già parlano sfumature meravigliose di romanesco».