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Nahal Tajadod - L'attrice di Teheran

Testata: Il Manifesto
Data: 15 gennaio 2014

Nahal Taja­dod, cit­ta­dina di Parigi dal 1977, quando lasciò l’Iran poco prima della dit­ta­tura di Kome­hini, si è già impo­sta all’attenzione con il romanzo Pas­sa­porto all’iraniana, Einaudi, 2008. Lì si nar­ra­vano le vicende di una donna alle prese con le esa­spe­ranti pra­ti­che di rila­scio del pas­sa­porto. Usando con note­vole talento e giu­sta misura l’arma dell’ironia, la scrit­trice aveva com­po­sto un affre­sco di per­so­naggi e luo­ghi sullo sfondo di un regime men­tal­mente obeso, venato di cor­ru­zione, lon­tano dal popolo. Con il suo secondo libro, Nahal torna a rac­con­tare l’Iran tra­mite due figure fem­mi­nili, vis­sute nel Paese in momenti assai diversi tra loro ma ugual­mente dram­ma­tici. Sheyda, attrice cine­ma­to­gra­fica già affer­mata nono­stante la gio­vane età (la sua figura è ispi­rata all’attrice Gol­shif­teh Fara­hani), è nata dopo il 1979, e quindi ha vis­suto i divieti, i soprusi, gli inter­ro­ga­tori, le minacce, le irru­zioni dei pasda­ran nella casa dei geni­tori, sor­ve­gliati spe­ciali in quanto arti­sti. Diverso l’Iran cono­sciuto dalla scrit­trice, che assume il ruolo di nar­ra­trice nel romanzo. È l’Iran dello scià Reza Pahlavi, filoa­me­ri­cano e soste­ni­tore acca­nito di una moder­niz­za­zione impo­sta con forza repres­siva. Le due donne si con­fron­tano, ricor­dano, con­ce­dono ai sen­ti­menti la più totale libertà. Amano la loro patria, la pro­fonda e antica cul­tura che la per­mea, le sue dif­fi­cili con­trad­di­zioni. La amano e cre­dono nella pos­si­bi­lità di un suo riscatto, di una rina­scita che renda giu­sti­zia alla prin­ci­pale tra le vit­time dello scià e di Kho­meini. Una vit­tima chia­mata donna (lds)