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A tu per tu con Massimo Carlotto

Autore: Barbara Bottazzi
Testata: Gli Amanti dei Libri
Data: 1 luglio 2014

Un tavolino con una luce soffusa, libri e carte appoggiati sopra: non siamo in un bar di qualche cittadina di provincia dove si svolge un festival letterario, ma al Salone del libro di Torino, allo stand della casa editrice E/O. Intorno il brusio confuso e crescente dei visitatori e tante persone che si affollano e davanti a me Massimo Carlotto, importante esponente del giallo italiano contemporaneo che al Salone presenta la sua ultima fatica: una piccola chicca intitolata “Il mondo non mi deve nulla”. Inizio con lui una piacevole chiacchierata partendo in generale dalle caratteristiche di questo genere letterario amatissimo dal pubblico, ma talvolta liquidato come semplice narrativa di genere. Soprattutto in Italia fare una generalizzazione di questo tipo risulta quanto mai affrettato e Massimo Carlotto ce lo conferma: Il giallo italiano, già dalle sue origini e oggi sempre di più,  parte da un desiderio di  approfondimento sociale. Nel tempo si è infatti  creata una vera e propria formula letteraria: raccontare una storia criminale che si svolge in un tempo in un luogo è diventata una scusa per raccontare la realtà politica, economica, storica del nostro paese. Questa formula è stata recepita dal lettore che l’ha fatta propria e arriva a chiedere ai propri autori di analizzare una certa situazione, magari invia lettere anonime o addirittura atti giudiziari. La sinergia con i lettori ha portato ad una sempre maggiore maturità degli autori: da soli non avremmo mai capito la direzione da prendere. Questo paese ha un rapporto perverso con la verità: nessuno, soprattutto dal dopoguerra in poi, crede alle ricostruzioni ufficiali. Gli autori di noir nel loro piccolo cercano di dare alcune risposte. A proposito di questo argomento, nel  booktrailer  del romanzo troviamo in evidenza questa frase: “La menzogna è l’unico strumento per sopravvivere”. Non c’è dunque più posto per la verità? La verità è diventata così scomoda nella relazione tra le persone che anche nelle situazioni all’interno della coppia e della famiglia la menzogna è diventata fondamentale. A volte mi capita di osservare la quotidianità  attraverso la bugia e noto come abbia molto peso nella vita. Collegato a questo c’è anche una problematica legata al denaro. Fofi già negli anni settanta diceva che  in questo paese nessuno dice mai quanto guadagna. Intorno al denaro si è creato un discorso sociale molto forte, è diventato un modello per costruire senso alle esistenze. Tramite questa vicenda ho voluto raccontare anche tanti imprenditori del Nordest che senza la sicurezza sociale data dal denaro si suicidano. Potrebbero campare comunque decorosamente, eppure non ci riescono perché fanno parte di una generazione, quella degli ultimi trent’anni, che ha visto un obiettivo nella speculazione a tutti i livelli. Le donne hanno un’importanza fondamentale nella sua produzione letteraria, si pensi alle Vendicatrici  (quattro romanzi scritti insieme a Marco Videtta, pubblicati da Einaudi) ma anche alla protagonista di questo racconto, Lize. Qual è la ragione di questa centralità? “Oggi è strategico capire che il futuro del mondo è in mano alle donne. Il modello maschile è fallito. Come autore poi credo sia fondamentale, perché è l’unica cosa interessante in questo mondo, ne sono fermamente convinto.” Quindi dopo la vendetta le donne ricostruiscono? Sì e alla grande. Questo romanzo è un esempio di una situazione in cui le donne risolvono tutto. Perché ha deciso di ambientare questa vicenda a Rimini? Noi italiani siamo portati a pensare che nell’immaginario del turista straniero ci siano in particolare le città d’arte. In realtàRimini ha un fascino grandissimo dovuto ad un insieme irripetibile di divertimento, arte e cultura. E ovviamente non si può non pensare a Fellini.  Poi per molte donne straniere è stato il luogo della trasgressione. Detto questo io adoro la Romagna perché non la capisco e amo approfondire le cose che non capisco.  Lei è approdato alla scrittura dopo una vicenda giudiziaria tormentata. Che cosa rappresenta nella sua vita? La scrittura è semplicemente  una professione che mi ha consentito di fare un lavoro bellissimo. L’ho incontrata per caso, grazie ad una persona meravigliosa, che si chiamava Grazia Cherchi ed è stata per me una grande maestra. Ho avuto fortuna, diciamo che l’avanzavo dopo quello che mi era successo. Di fatto io non avevo mai scritto una riga. Ero un lettore compulsivo venendo da una famiglia di grandi lettori.Sono diventato un lettore consapevole solo quando ho letto questa frase di Pavese che dice  “La letteratura è una difesa contro le offese della vita”.  Per me è una sorta di nutrimento che migliora la qualità della vita. In Italia specialmente abbiamo sempre associato la lettura ad una dimensione di stratificazione sociale. Ho capito quanto fosse sbagliato  durante un viaggio. Mi trovavo a L’Havana e il sabato facevano una sorta di fiera del libro con offerte a prezzi bassissimi. La gente si riempiva le sporte di libri così incuriosito mi sono messo a sbirciare . C’era di tutto : dalla fantascienza ai classici russi. In quel momento mi è apparso chiaro che la diffusione del libro non fosse un problema di classe sociale.   A questo proposito tra le sue attività c’è quella di aiutare i giovani scrittori. Accanto alla diffusione della lettura bisogna lavorare sulla scrittura. Abbiamo bisogno in questo paese di una generazione di nuovi scrittori, in primis perché la televisione sta impoverendo la lingua italiana. Stanno scomparendo vocaboli ogni giorno e questo può essere recuperato solo da una nuova generazione di scrittori che reinterpretano e recuperano la nostra lingua. Rischiamo sempre di più un  colonialismo letterario da parte degli stranieri perché è più difficile investire in un autore italiano.  Ci sono giovani molto validi, ma fanno molta fatica in questo mondo letterario. Da un lato c’è la politica del bestseller dall’altro gli editori hanno paura di questi assottigliarsi del mondo dei lettori. E’ un problema strategico rispetto alla lingua e questa è la grande battaglia. Bisogna riscoprire la poesia e quando pronuncio questa frase sorrido: mi sembra assurdo che siano i giallisti a doverlo dire!