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Intervista a Muriel Barbery

Autore: Leonetta Bentivoglio
Testata: La Repubblica - Almanacco dei libri
Data: 6 settembre 2008

Intervista. Un feroce e raffinato critico gastronomico, in punto di morte cerca la verità ultima: il “sapore assoluto”. Il piacere, l’infanzia, la vita nel libro d’esordio dell’autrice dell “eleganza del riccio”.

Esiste qualcuno che non abbia sentito parlare de L’eleganza del riccio? In molti hanno letto, apprezzato e regalato questo bizzarro romanzo; in tanti lo hanno sentito commentare o ne hanno visto pile di esemplari cinti da fascette che annunciano esultanti la trentesima ristampa. In Italia sta superando le 400.000 copie vendute, in Francia ha scavalcato il milione. Tradotto in 35 paesi, svetta da mesi nelle classifiche in Spagna e Corea. Prodigi del passaparola e alchimia sfuggente a strategie mediatiche: scritto da Muriel Barbery, insegnante di filosofia dell’educazione in Normandia completamente estranea a giri letterari, L’élégance du hérisson uscì in Francia nel 2006. Nessuno aveva previsto che quel burlesco e ben armato monologo di una portinaia divoratrice di Tolstoj, appassionata di Mahaler e ardita nello smantellare la fenomenologia di Husserl, intrecciato al journal intime dell’adolescente intellettuale Paloma, domiciliata nello stesso condominio della concierge e altrettanto determinata a occultare i propri talenti al mondo dei borghesi idioti, sarebbe divenuta un fenomeno editoriale.

Clima e stile di quel libro (gioco di scrittura sferica e sinuosa, affidata sempre alla prima persona), oltre che set ambientale (stesso palazzo parigino in Rue de Grenelle) e personaggi (la portiera Renée), riemergono da un altro romanzo della Barbery, Estasi culinarie, in uscita in Italia in questi giorni. È il suo debutto di scrittrice: pubblicato in Francia nel 2000 col titolo Une gourmandise, narra l’agonia di un critico gastronomico raffinato e feroce. Morente eppure lucidissimo, Monsieur Arthens si racconta inseguendo la sua vita in una serie di flash back mentre cerca il «sapore per eccellenza»: prima e ultima verità, chiave del cuore, gusto annidato nel profondo, come la madeleine proustiana. Del libro, che passò inosservato in Francia e anche in Italia, dove uscì per Garzanti nel 2001 come Una golosità, hanno rilevato i diritti le edizioni e/o, sperando di replicare il miracoloso ciclone dell’Eleganza del riccio, e facendolo ritradurre da Cinzia Poli ed Emanuelle Caillat, gli stessi ottimi traduttori del romanzo-rivelazione. Nel frattempo l’autrice, giovane signora d’indole nascosta a riccio, come le sue eroine, spaventata dal troppo clamore («ero impreparata a diventare bersaglio mediatico») è fuggita in Giappone rifugiandosi a Kyoto col marito Stéphane e «dopo aver lasciato il mio lavoro in Francia, venduto la nostra casa e aver affidato i nostri gatti agli amici», spiega. «Da tempo mio marito ed io sognavamo di trasferirci qui, e sette mesi fa siamo riusciti a farlo. Posso scrivere a tempo pieno pagata dal mio editore, il quale accetta persino di non sapere nulla del nuovo libro e non mi dà scadenze. Non è meraviglioso?».

Perché il Giappone?
«Perché amiamo tutto di questo paese: arti, cinema, modo di vivere; il cibo delizioso, i manga, la lingua…Mi sono messa a studiarla. Siamo sempre più catturati da questa cultura. È stato Stéphane a trasmettermi l’interesse per la cultura giapponese: quando lo conobbi era già un esperto, mentre io ero piena di clichè. Ci incontrammo da studenti universitari a Parigi, io di filosofia e lui di scienze politiche. Siamo sposati da otto anni ma ci conosciamo dal doppio».

Si sa che suo marito collabora intensamente ai suoi romanzi.
«Verissimo. Stéphane è un coautore fondamentale, e a partire dal prossimo romanzo firmeremo insieme. Le sue riflessioni psicologiche e filosofiche sono per me fonte d’ispirazione continua: mi nutro dei suoi pensieri. Inoltre mi suggerisce piste, interviene sulla struttura, mi fa tagliare ciò che non va, elimina o dilata un personaggio. Esempio: nella prima versione de L’eleganza del riccio parlava solo Renée, la portinaia. A pagina 200 una bambina bussava alla guardiola. Nient’altro che un frammento. Eppure mio marito trovò subito speciale quella ragazzina e mi spinse a svilupparla al punto di farmi riscrivere interamente il testo»

Come le venne l’idea di Une gourmandise?
«L’ultima scena del libro fu per me la prima. Affiorò l’immagine di un gastronomo autorevole e crudele che alle soglie del trapasso scopre il sapore primordiale. Mio marito mi consigliò di farne un romanzo, anche se prima di quel momento, e pur avendo sempre scritto con piacere, non avevo mai pensato di pubblicare qualcosa. Ho inviato il testo a sei grandi editori ricevendo lettere di rifiuto di cui una perfida che però non mi ferì più di tanto, perché non credevo al libro. Poi lo prese Gallimard. Non ebbe un particolare successo, ma per essere un primo romanzo non andò male».

In Estasi culinarie c’è anche Renée, protagonista dell’Eleganza del riccio: il suo best-seller venne quindi concepito come una seconda puntata?
«Accadde tutto un po’ per caso. Era passato parecchio tempo dalla pubblicazione di Une gourmandise, la consideravo un’esperienza chiusa. Un giorno mi capitò di leggere il monologo della portiera in quel romanzo e mi venne voglia di farne l’eroina di un’altra storia. Mi ricordai che il mio editore, quando aveva ricevuto il testo di Une gourmandise, aveva criticato il passaggio in cui facevo parlare la portinaia di Monsieur Arthens usando un linguaggio grezzo e popolare. Una romanziera, mi disse, può permettersi di tutto, anche di far parlare una concierge come una duchessa».

È golosa?In Estasi culinarie scorrono evocazioni sensoriali dettagliate, voluttuose nel morbido contatto con la lingua. Lingua come linguaggio, compiacimento estetico, gusto delle parole avviluppato a quello del mangiare.
«Adoro il cibo e ho sempre trovato appassionante descrivere la sensazione che suscita in me questo fantastico piacere. Mi esalta rendermene conto, spiegare queste emozioni».

Il suo critico culinario pare quello del cartone animato Ratatouille: stessa crudeltà, stessa ricerca del sapore ancestrale…
«In molti lo hanno notato. La verità è che i grandi gastronomi, che siano critici o cuochi, sono sempre stati iniziati alla loro vocazione nell’infanzia, dalla cucina prelibata della madre o della nonna. Quindi le loro storie si assomigliano tutte. Quanto al carattere del personaggio, si sa che i critici sono la razza umana più cattiva».