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Nel Campo di Gino Battaglia il vero nemico è il pregiudizio

Autore: Fulvio Panzeri
Testata: Avvenire
Data: 11 luglio 2014

Dopo averci raccontato con Malabar (20ll, selezionato per il premio Strega), la complessa preparazione dell'attività missionaria di Matteo Ricci in Cina, don Gino Battaglia ora torna al romanzo affrontando il tema della condizione dei rom, che conosce a fondo, occupandosi di marginalità sociale presso la Comunità di Sant'Egidio. È un narratore forte, che sa guidare, come avviene in questo secondo romanzo, una vicenda corale, fitta di personaggi, con una libertà espressiva che rimanda a un realismo arcaico, quasi biblico, nello stile di Faulkner. Così il suo Campo rom, con le sue storie che richiamano alla tradizione e alla Storia, ma accolgono anche i cambiamenti in atto, soprattutto rispetto al tema dell'accoglienza da parte del mondo esterno al Campo, diventa una sorta di comunità che tenta di arginare le deviazioni rispetto a un "nuovo" che rischia di disgregare i legami familiari e di amicizia. Su tutti c'è la figura dell'anziano Dragutin, personaggio simbolo del libro, una sorta di patriarca che da bambino è riuscito a sfuggire allo sterminio voluto dai nazisti. È lui che sorveglia il Campo degli zingari, la vita dei suoi figli, i tentativi di alcuni di loro di sottrarsi alle "leggi" della loro tradizione, sempre rispettate pretazione sociologica, macome ricostruzione di una realtà, quella degli "zingari" nelle città italiane, che negl iultimi vent'anni ha subìto pesanti trasformazioni. Così nel raccontare un mondo popolare assai ricco di tradizioni e credenze, di feste e di una cultura radicata nel tempo, Gino Battaglia fa emergere anche lo "strappo civile" che si è andato creando dentro le comunità rom e nei confronti della società civile che sempre di più, anziché trovare punti d'incontro, ha voluto accentuare le differenze. Si ricorda, al proposito, anche per la naturalezza con cui Gino Battaglia lo descrive, l'episodio, carico di strazio e tenerezza, in cui uno dei figli di Dragutin scompare, allarmando tutti nel Campo. Quando ritorna, racconta di essere stato arrestato, perché preso di mira sull'autobus e accusato di un furto che, in realtà, non ha mai commesso. Ciò che rimane impressa è questa rabbia verso il pregiudizio di cui è stato investito con violenza. Si chiede il figlia:«Perché dovevo essere per forza io? Chi lo ha detto? Perché siamo zingari? E poi come hanno fatto a sapere che ero zingaro?».Questo romanzo diventa un libro necessario, una sorta diriflessione su questa rabbia che tocca il profondo dell'uomo, di qualsiasi uomo che non viene accettato per quella che è la sua cultura e la sua realtà. Nel dolore del figlio Dragutin sente «come un grido dal profondo, che percepisce ma a cui non sa rispondere». Le parole vere e autentiche le trova il narratore, dentro una storia che non si dimentica.