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"La fortuna di Dragutin" bimbo rom sfuggito ai nazisti

Autore: Lidia Lombardi
Testata: Il Tempo
Data: 8 settembre 2014

La fortuna è un faro, per gli zingari, mica solo il rito della lettura dell amano. Nella loro vita fatta di precarietà prima di tutto esistenziale, è il deus ex machina che scansa la sciagura, ma anche la mano di Dio posata sulla testa. E non risulti blasfemo l'accostamento. Ce ne convince il bel romanzo di Gino Battaglia, viaggiatore instancabile, come instancabile è il suo impegno a favore del dialogo interreligioso partito dalla Comunità di Sant'Egidio. Si intitola appunto «La fortuna di Dragutin». E racconta la vita in un campo rom nella periferia di una non meglio specificata città italiana, steso accanto all'argine di un fiume. Dentro questo recinto le dramatis personae hanno voci spesso discordanti, non solo per le risse, i livori, ma soprattutto per gli ideali. Perché ne hanno molti, di ideali e di difetti, i nomadi di Battaglia, che li sbozza per averli visti da vicino, capace dunque di replicarne idioma, intercalare, invocazioni, imprecazioni.
Ma chi è Dragutin, e qual è la sua fortuna? È un vecchio, capofamiglia carismatico del campo, sfuggito miracolosamente, bambino, nella natia Jugoslavia, a una strage nazista che ha sterminato la famiglia. Gliela rinfacciano continuamente questa fortuna. E lui, ormai seduto tutto il giorno su una poltrona, dentro il camper, la kampina, rimugina al pari di un personaggio di Marquez la personale vicenda. Davvero fortunato a essere cresciuto solo? Anche ora, mentre sente la vecchiaia azzannarlo e vede i sette figli sfuggire alla patriarcale autorità, ansiosi di una presa di coscienza avversa a regole ataviche? Prendete Jàgoda, la più giovane. S'incapriccia di un turco che vive nella roulotte più lontana, rifiutando il rom che la famiglia vuole imporgli come sposo. E con il musulmano progetta la fuga in Sardegna, a cercare lavoro. Anche Milan sfugge all'indolenza. Ha i documenti in regola, la sera vende fiori e avverte: «Le figlie no, io non le mando a lavorare. Devono andare a scuola. Che uomo sei, se sfrutti i bambini? A noi nessuno ci vuole perché ci sono troppi matti o delinquenti o drogati o ubriachi. Chi ci darebbe una casa a noi? Se siamo in questa situazione è colpa nostra...».
Altri invece mandano donne e ragazzini a chiedere, impongono il dente d'oro perfino ai piccoli, nascondono i soldi sottoterra, salvo poi tirare fuori il coltello contro il vicino quando il bottino sparisce. Ma prevale infine la solidarietà, il sacro dell'unione familiare. E una fede che li fa discettare sull'aldilà, su Allah e Dio. S'inanellano storie tra chi è seduto accanto ai bracieri. I racconti della persecuzione dei rom dopo la fine di Ceausescu. Della cacciata dalla Germania, che paga fior di milioni a Bucarest affinché se li riprenda. Della guerra in Serbia, tanto cruda che Dragutin indugia a tornarci, anche se lì si è costruito una casa.
La casa, gli avi, la speranza, il divino. ll vecchio «fortunato» ci si aggrappa e rende grazie alla santa protettrice, Paraskeva, con un banchetto che una volta l'anno, in autunno, la celebra. È il nucleo narrativo del libro quel pranzo per l'intero campo che la famiglia di Dragutin prepara con orgoglio d'appartenenza. Ma dalle prime pagine incombe la tragedia su quei nomadi inzuppati dalla pioggia simile a nemesi umana più che trascendente. L'epilogo ha vigore apocalittico. C'è una comunità che si ritrova senza niente in cima alla scarpata. Ciascuno è stretto all'altro. «Stare insieme» aspettando la buona sorte che viene da Dio è la regola non scritta ma salvifica.