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Il cordone sanitario sugli scrittori russi

Autore: Maria Teresa Carbone
Testata: Pagina 99
Data: 25 ottobre 2014

Qualcuno ricorda ancora la vecchia definizione che Churchill diede dell’Unione Sovietica? «Un indovinello avvolto in un  mistero all’interno di un enigma»: era l’ottobre 1939, poco dopo il patto Molotov-Ribbentropp che sanciva la non belligeranza fra la Germania di Hitler e l’Urss di Stalin. Da allora tanto tempo e tantissime cose sono cambiate, ma per la maggior parte degli osservatori occidentali è ancora arduo capire le dinamiche di quella Russia che, disintegrato oltre un ventennio fa l’impero sovietico, resta il Paese più grande e impenetrabile del mondo. «Toto, non siamo più in Kansas», scherzavano gli espatriati americani a Mosca negli anni Novanta, paragonando il loro spaesamen-
to a quello di Dorothy, l’eroina del Mago di Oz. Ed era vero, la Russia di Gorbaciov e poi di Eltsin aveva poco a che fare con quell’Occidente cui pure spalancava le porte.
Ma anche oggi, nell’anno 2014, la Russia di Mister Putin – come lo definisce ironicamente Vladimir Sorokin – non somiglia a nessun altro Paese, a dispetto delle frontiere più o meno aperte e degli accordi economici planetari, solo in parte intaccati dalla crisi ucraina. Sarà per questo che, per lo meno in Italia, i libri degli autori russi sono visti come il fumo negli occhi da quasi tutti gli editori, convinti – purtroppo a ragione – che le probabilità di vendere un romanzo proveniente da Mosca o Pietroburgo siano scarsissime?
Le peripezie editoriali di Sorokin ne sono una prova . Uscito da Guanda l ’eccellente esordio della Coda, passato a Einaudi con Ghiaccio, ha stentato a lungo prima di trovare chi gli pubblicasse il suo libro più bello, La giornata di un oprichnik, finalmente edito da una sigla minuscola e temeraria, Atmosphere, nella traduzione di Denise Silvestri.
Di questo cordone sanitario che li circonda, gli scrittori russi sono ben consapevoli. «Nonostante la loro innegabile appartenenza a uno dei sei o sette paesi che hanno fornito il maggior apporto al patrimonio spirituale mondiale, i russi non sono un prodotto della cultura di massa, a eccezione di Dostoevskij, Tolstoj e Cechov»: è quanto ha scritto Zachar Prilepin (veterano in Cecenia divenuto poi, con romanzi come Il peccato e San’kja, l’autore più importante della generazione dei trenta-quarantenni) nella postfazione al Fantasma di Alexander Wolfdi Gajto Gazdanov, tra i maggiori esponenti della passata letteratura dell'emigrazione, che un'altra piccola e coraggiosa casa editrice, V oland, fin dal nome bulgakoviano votata alla scoperta della vecchia e nuova letteratura russa, ha da poco rimandato in libreria.
Ed è un gran peccato, questa nostra disattenzione, per due motivi almeno. Il primo è che la narrativa russa d'oggi possiede una vitalità invidiabile, uguale se non superiore verrebbe da dire malignamente a quella, assai più popolare, di lingua inglese. I testi da citare sarebbero tanti, dai crudeli "Racconti sull'amore" (Rasskazy o ljubvi, guarda caso non tradotti in italiano) di Ljudmila Petrushevskaja, classe 1939, al distopico e attualissimo Lighthead di Olga Slavnikova (Fandango).
Ma per limitarsi a un solo esempio, che lo scrittore Eduard Limonov sia noto per le sue (discutibili) idee politiche e più ancora per il romanzo-biografia che gli ha dedicato Emmanuel Carrère, è solo una delle tante prove di questa miopia: basti leggere Il trionfo della metafisica. Memorie di uno scrittore in prigione, uscito l'anno scorso da Salani nella traduzione di Giulia De Florio ed Elena Fredda Piredda. Resoconto dei due mesi trascorsi nel 2003 da Limonov come detenuto della colonia penale n. 13 nella regione di Saratov (dopo due anni di carcere in seguito a una condanna per traffico d'armi e terrorismo), il libro è come nota Maria Candida Ghidini nell'introduzione «molto meglio di quanto possa fare qualsiasi instant book, un atto d'accusa contro la Russia putiniana».
Ed ecco il secondo motivo per cui dovremmo accostarci con maggiore curiosità a quello che arriva da est: romanzi come La giornata di un oprichnik o saggi narrativi come il recentissimo L'Olimpo di Putin di Valerij Panjuskin, pubblicato da e/o (la traduzione è di Claudia Zonghetti), ci dicono della società russa dei nostri tempi molto più di quanto possano raccontarci decine di articoli di giornale, di servizi televisivi, di brillantissimi tweet.
Non a caso, forse, i due libri si aprono sullo stesso paesaggio: la Rublevskoe Shosse, detta familiarmente, per l'amore che i russi di ieri e di oggi hanno verso i diminutivi e i vezzeggiativi, Rublevka (e Rublevka è il titolo originale del testo di Panjuskin). Si tratta di una delle tante radiali che partono dal centro di Mosca, ed è tuttavia una strada speciale, perché lungo il suo percorso, e più precisamente nei venti chilometri tra Roma5kovo e Nikolina Gora , risiedono a partire dallo stesso Putin, dio invisibile e onnipresente i grandi e i potenti, quelli che fanno e disfano i destini della Russia (e il più delle volte anche i loro), quelli insomma che Panjuskin definisce i partecipanti al Grande Gioco, con una metafora presa in prestito a Kipling e ad altre epoche, eppure del tutto adeguata anche nel nostro più o meno gÌobalizzato presente.
E come in tutti i (war)games, ogni abitante della Rublevka ha il suo ruolo. Ci sono i pedoni, magari ricchi come nababbi, ma destinati a non diventare mai primi attori. Ci sono le mogli, che tranne rarissime eccezioni non vengono ammesse al Gioco, ma sono perfetti "cimeli" per i giocatori, immancabilmente belle, curate, capaci di chiudere gli occhi sulla noia (loro) e i tradimenti (dei mariti). Ci sono i e di rado anche le trendsetter, che impongono mode e tendenze in un universo dove il peso di mode e tendenze è enorme. Enorme ed effimero, come dimostra la brutale rapidità del loro avvicendarsi, pari solo alla brutale rapidità in cui, nell'universo putiniano, possono precipitare le fortune di oligarchi come Gusinskij o Chodorkovskij, appartenenti al gotha della Rublevka, cioè dell'olimpo rosso. Per questo, scrive Panjuskin con quell'ironia che dai tempi di Gogol' a oggi, passando per l'Urss, è forse la maggiore risorsa a disposizione degli scrittori e degli artisti russi, «il massimo a cui un Giocatore possa aspirare è di uscire dal Gioco. Di andarsene in Inghilterra o in Normandia. Da persona facoltosa. Non da mago, né da incantatore di Denari. Insomma, può solo sperare di vedere la scritta GAME OVER>>.