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«Via da Napoli, la città che non risorge»

Testata: Corriere del Mezzogiorno
Data: 28 ottobre 2014

Anticipiamo il nuovo romanzo della Ferrante, la scrittrice che resta senza identità

Arriva in libreria in questi giorni il quarto e ultimo volume dell’Amica geniale di Elena Ferrante. S’intitola Storia della bambina perduta (edizioni e/o) il romanzo che conclude la storia di amicizia tra Elena e Lila, nate entrambe in un rione periferico di Napoli e poi cresciute attraverso differenti percorsi: la formazione politica, la scrittura, l’emancipazione dalla periferia napoletana, gli amori. Un libro molto atteso dai fan della scrittrice napoletana che continua a scrivere sotto pseudonimo e non lascia trapelare nulla della propria identità. Del nuovo volume pubblichiamo, per concessione dell’editore, il capitolo in cui Elena racconta il suo definitivo allontanamento da Napoli che, ancora una volta, negli anni Novanta, la deludeva nonostante l’apparente cambiamento.

Sono andata via da Napoli definitivamente nel 1995, quando tutti dicevano che la città stava risorgendo. Ma ormai credevo poco alle sue resurrezioni. Avevo visto negli anni l’avvento della nuova stazione ferroviaria, il fiacco svettare del grattacielo di via Novara, i veleggianti edifici di Scampia, il proliferare di costruzioni altissime e splendenti sopra il pietrame grigio dell’Arenaccia, di via Taddeo da Sessa, di piazza Nazionale.

Quegli edifici, immaginati in Francia o in Giappone e sorti tra Ponticelli e Poggioreale con la solita lentezza guasta, subito, a velocità sostenuta, avevano perso ogni fulgore e si erano mutati in tane per disperati. Sicché quale resurrezione? Era solo cipria della modernità spruzzata a casaccio, e in maniera sbruffona, sopra la faccia corrotta della città.

Ogni volta succedeva così. Il trucco della rinascenza accendeva speranze e poi si spaccava, diventava crosta sopra croste antiche. Perciò, proprio mentre correva l’obbligo di restare in città a sostenere il risanamento sotto la guida dell’ex Partito comunista, io mi decisi a partire per Torino, attratta dalla possibilità di dirigere una casa editrice che all’epoca era piena di ambizioni. Dopo i quarant’anni il tempo si era messo a correre, non ce la facevo più a tenergli dietro. Il calendario reale era stato sostituito da quello delle scadenze contrattuali, gli anni saltavano da una pubblicazione all’altra, dare una data agli eventi che riguardavano me, le mie figlie, mi costava uno sforzo, li incastonavo dentro la scrittura, che mi prendeva sempre più tempo. Quando era successa quella cosa, quando quell’altra? In modo quasi irriflesso mi orientavo con le date d’uscita dei miei libri.

Di libri ne avevo ormai parecchi alle spalle, e mi avevano fruttato un po’ di autorità, una buona fama, una vita agiata. Il peso delle figlie col tempo si era molto attenuato. Dede ed Elsa – prima l’una, poi l’altra – erano andate a studiare a Boston, incoraggiate da Pietro che da sette o otto anni aveva una cattedra a Harvard. Col padre erano a loro agio. Se si escludevano le lettere in cui si lagnavano del clima infame e della saccenteria dei bostoniani, erano soddisfatte di sé e di essersi sottratte alle scelte a cui, in tempi andati, le avevo costrette. A quel punto, poiché Imma smaniava per poter fare come le sorelle, che ci facevo al rione? Se in principio mi aveva giovato la fisionomia della scrittrice che, pur potendo andare a vivere altrove, era rimasta in una periferia rischiosa per seguitare a nutrirsi di realtà, adesso erano parecchi gli intellettuali che si fregiavano dello stesso luogo comune. E poi i miei libri avevano preso altre strade, la materia del rione era finita in un angolo. Non era dunque un’ipocrisia avere una certa notorietà, essere piena di privilegi e tuttavia autolimitarmi, risiedere in uno spazio dove potevo solo registrare con disagio il peggioramento della vita dei miei fratelli, delle mie amiche, dei loro figli e nipoti, forse persino della mia ultima figlia?

Imma era, all’epoca, una ragazzina di quattordici anni, non le facevo mancare nulla, studiava molto. Ma parlava all’occorrenza un dialetto duro, aveva compagni di scuola che non mi piacevano, ero così in ansia, se usciva dopo cena, che spesso lei stessa decideva di restare a casa. Anch’io, quando ero in città, avevo una vita limitata. Vedevo amiche e amici della Napoli colta, mi lasciavo corteggiare, intrecciavo relazioni che però duravano poco. Anche gli uomini più brillanti si rivelavano presto o tardi persone deluse, arrabbiate con la mala sorte, spiritosi e tuttavia sottilmente malevoli. A volte avevo l’impressione che mi volessero soprattutto per darmi in lettura i loro dattiloscritti, per chiedermi della televisione o del cinema, in qualche caso per ottenere soldi in prestito che poi non mi restituivano più. Facevo buon viso a cattivo gioco, mi sforzavo di avere una vita sociale e sentimentale. Ma uscire la sera da casa vestita con qualche eleganza non era un divertimento, mi dava angoscia. In una certa occasione non feci in tempo a chiudermi il portone alle spalle che fui picchiata e derubata da due ragazzini di non più di tredici anni. Il tassista, che aspettava a due passi, non si affacciò nemmeno dal finestrino. Perciò via, nell’estate del 1995 me ne andai da Napoli insieme con Imma.