Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

L’ultima Napoli di Ferrante, feroce e furente

Autore: Titti Marrone
Testata: Il Mattino di Napoli
Data: 31 ottobre 2014

Nelle pagine firmate Elena Ferrante abita il mistero di Napoli e della sua immobilità nel tempo, il sentimento di eterna sospensione in attesa di un cambiamento sempre promesso ma cancellato da infiniti ritorni all'indietro. Vi si respira la consapevolezza sotterranea che il fallimento della città sarà fallimento di tutti. È per questo che la visibilità mondiale assunta con la quadrilogia de L'amica geniale conta assai più della leggendaria identità segreta di Ferrante, inventata con abile mossa mediatica in tempi di sovraesposizioni scomposte. Perché quest'opera è la bottiglia in cui sta infilato il messaggio, l'allarme sulla città che anticipa le patologie del mondo lanciato da chi sta nascosto dietro quel nome. E ora, con l'usci-tadell'ultimovolume, Storia della bambina perduta (e/o, pagg. 452, euro 19,50) il discorso sulla città si precisa, assume respiro globale, sorretto com'è da una scrittura sempre più simile a unaragnatelafatata che crea mondi, li confronta, li scompone.
Arrivati all'ultima pagina, si scopre di esser rimasti catturati dai mondi della Ferrante come da una febbre. E si è così avvilup-pati dalla sua ragnatela da uscirne con un senso di rammaricata solitudine, nel timore di spezzare fili capaci di spalancare lampi di consapevolezza come solo la grande letteratura sa fare. Perché la quadrilogia in tutto 1632 pagine, bella sfida «monstre» in tempi di non lettura è molto più della storia di un'amicizia tra Elena, l'io narrante, e Lila, molto più di un Bildungsroman lungo sessant'anni e ambientato a Napoli, con guizzi a Torino, Firenze, Roma. Soprattutto in quest'ultimo volume, ha i connotati di un romanzo multiplo che mischia piani pubblici e privati, si avventura in scavi psicologici e sociali. E si diffonde sui legami famigliari, sulle relazioni uomo-donna pronte a transitare dall'amore all'odio; sul senso dello scrivere, la ricerca di visibilità, il carrierismo; sul sogno di benessere del boom economico, tradotto a Sud in malintesa modernità pronta ad aprire varchi al malaffare camorristico; sulla rivolta giovanile dei '60-'70, sulla militanza politica e intellettuale invischiata in rituali di potere e sopraffazione maschilista; sulla corruzione in politica; sulla voglia di sparire, prerogativa di Lila qui nei panni di programmatricedicomputernonpercaso attratta più di tutto dal tasto «cancella».
La trama, densissima, si sviluppa in perfetto movimento circolare, con procedimento di scrittura che si direbbe di persona o persone non estranee a sceneggiature per «dramedy» o fiction tv. Chiude la storia dove l'aveva fatta partire, con Elena («Lenuccia») e Raffaella («Lila») ultrasessantenni e con la sparizione della seconda. Ma aggiunge un particolare che, quasi all'ultima riga, toglie il respiro: la non meno misteriosa riapparizione delle due bambole di pezza che all'inizio de L'amica geniale si credevano rubate dallo strozzino del quartiere, don Achille.
Il titolo Storia della bambina perduta allude a un'altra scomparsa, quella della piccola Tina, figlia di Lila, che a 4 anni si volatilizza sotto gli occhi di madre, padre e amici, per la distrazione di un attimo. Questo sviluppo che dà corpo all'incubo ancestrale covato da ogni genitore di scambiare o perdere o abbandonare di proposito il proprio figlio induce a scrutare in una zona d'ombra su rapporti famigliari qui mostrati per ciò che sono dietro il paravento dei convenzionalismi, con lucidissima spietatezza. Sensi di colpa o d'inadeguatezza, timori di carriere troncate dagli obblighi della maternità, desideri filiali di rifarsi al modello della propria madre o ribrezzo per i segni di consanguineità incisi dalle somi-glianze connotano le relazioni madre-figlia: quella di Lila e Tina, quella di Lenuccia e delle sue tre figlie, ma più di tutto di Lenuccia e sua madre, di cui l'io narrante arriverà, in età avanzata, a riprodurre l'odiatissima camminata zoppicante.
Torna la relazione di Elena con Nino e trascorre dalla passione alla rottura, in una successione illuminante sugli esiti degli amori privi di regole in voga negli anni della presunta liberazione sessuale. Anni di disordine sentimentale vestito da una spregiudicatezza praticata senza timore di ferire l'altro, in cui abbondavano i «femministi» come Nino, a parole intenti al rispetto per le donne e a parità totali, ma nei fatti non dissimili dai padri, inclini a tradimenti e sotterfugi di ogni tipo.
Il racconto delle delusioni s'impenna spesso in un napoletano osceno, quasi un codice identitario pronto a riaffiorare di sotto il belletto dei comportamenti «civili» o «rivoluzionari». È la lingua furente e sboccata usata da Ferrante, con parole come «pisciazza», «lota», «ricchione», «sfaccimma», in un dialetto che spaventa e sembra azzannare il resto della frase in italiano. La stessa lingua segnala che siamo nella Napoli del laurismo e degli anni '60, poi nella città do-ve un gruppo di giovani s'illude di cambiare la realtà in quel certo circolo marxista, qualcuno trasmigra in clandestinità e qualcun altro scrive sul «Mattino». Si passa nella città straziata del terremoto, che spegne le speranze suscitate da Valenzi, si arriva fino a quella di Bassolino sindaco, appena accennata come la coda di un sogno afferrato in dormiveglia e transitato nella disillusione.
Arriviamo quasi a oggi ma la lingua è sempre quella perché la città non è cambiata: come dice Lila «Napoli fa schifo esattamente come prima», il difetto che la domina è lo stesso che affligge Lila: la «smarginatura», il senso di labilità, la perdita di sé che muta anche la genialità in inconcludenza. E accomuna cittadini, politici, intellettuali, ugualmente colpevoli, incapaci di rispettare se stessi e quel mare che bagna Napoli ma è avvelenato in una misura minacciosa, che potrebbe dilagare e trasmettersi al mondo intero