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La “Paura”, di Federico De Roberto dentro “Torneranno i prati”, di Ermanno Olmi

Autore: Luigi Cavazzi
Testata: Gruppo di lettura
Data: 27 novembre 2014
URL: pubblicò il libro con i racconti di De Roberto.) https://gruppodilettura.wordpress.com/2014/11/26/torneranno-i-prati-ermanno-olmi-paura-federico-de-roberto/

In Torneranno i prati, il film che Ermanno Olmi ha dedicato alla Grande Guerra ci sono alcuni minuti molto intensi, nella parte iniziale, che sono ispirati da un racconto diFederico De Roberto, “La paura” – molto più che ispirati, direi, si potrebbe dire che il soggetto per quella parte del film, nonché un’influenza sul registro generale della pellicola, derivi proprio da quello scritto del grande autore de I Vicerè. Questo racconto è stato proprio quest’anno incluso da E/O in un libro, La Paura e altri racconti della Grande Guerra. Ma è proprio “La Paura” che rende il libro indimenticabile. Nel racconto, un avamposto italiano, in un luogo del fronte “spaventoso, ma in compenso tranquillo” – sulle alte montagne al confine fra Italia e Austria dove si combatté la “guerra bianca” – viene scosso, dopo il cambio di contingente nemico. I boemi che “l’avevno ditto, che non avressono sparato”, vengo sostituiti da ungheresi.Uno di questi, cecchino di rara precisione, comincia a bersagliare e uccidere gli italiani che a turno montano di guardia su una piazzola all’imbocco di un canalone particolarmente importante “poiché solamente di lì i nemici potevano tentare una sorpresa”. E quindi “gli ordini portavano che quel passaggio fosse continuamente esplorato dall’alto, e precisamente dal punto già designato per la postazione d’una mitragliatrice alla quale si era poi dovuto rinunziare non essendo riuscito possibile mascherarla”. Aspettare il proprio turno di guardia sulla piazzola diventa una terribile attesa, piena di paura, di una morte quasi certa:

ma se la morte è acquattata, vigile, pronta a balzare e a ghermire; se bisogna andarle incontro fissandola negli occhi, senza difesa, allora i capelli si drizzano, la gola si strozza, gli occhi si velano, le gambe si piegano, le vene si vuotano, tutte le fibre tremano, tutta la vita sfugge; allora il coraggio è lo sforzo sovrumano di vincere la paura; allora la volontà deve irrigidirsi, deve tendersi come una corda, come la corda del beccaio che trascina la vittima al macello.

Il racconto è un crescendo di angoscia e tensione, con al centro il ta-pum delle fucilate del cecchino e il conflitto interno al tenente Alfani, che comanda quel plotone, fra il dovere, sentito e forte, di obbedire ai comandi e la consapevolezza dell’assurdità della morte dei soldati che via via il turno spinge a far bersaglio per il cecchino. Il finale è uno scioglimento sorprendente. De Roberto rappresenta in modo efficace anche la composizione di quell’esercito regio che fronteggiò gli austriaci per più di tre anni: i soldati infatti si esprimono in forme dialettali che in poche battute ci restituiscono quegli individui così distanti culturalmente e uniti da quel maledetto crogiolo che in modo perverso unì per qualche anno anche il Paese. Angoscia, voglia di fuga, incapacità di comprendere il senso degli eventi, fatica, anche ribellione istintuale agli ordini irragionevoli, tutto questo si insinua e sta nel non detto del racconto. Ermanno Olmi, in Torneranno i prati, sceglie soprattutto di usare De Roberto per segnare i confini della sua narrazione: la guerra bianca, soldati e ufficiali di prima linea così diversi ma egualmente vittime, anche dell’impossibilità di spiegare la guerra. Ma il film richiama il racconto di De Roberto anche per la discrezione, tipica della forma narrativa breve, con la quale tratteggia i personaggi e lascia intuire i loro pensieri e tormenti. La storia narrata dentro il film – assai scarna, in alcune parti affidata a una sceneggiatura che non si cura di costruire un intreccio evidente e non teme di lasciare ampi spazi all’interpretazione – va oltre il racconto di De Roberto, si dirama in una piccola serie di eventi differenti. Ma di quelle pagine ci lascia il senso e il respiro. L’affetto, in fondo, per quella generazione di giovani che fu “perduta” in molti sensi: o perché morì sui campi di battaglia, nei campi di prigionia dell’impero austro-ungarico, o di Spagnola, poi, a casa; o quando si salvò si trovò ad affrontare altri vent’anni di travagli e una seconda ancora più terribile guerra che di quella, Grande, fu davvero figlia. Quell’affetto Olmi lo affida anche alla dedica al padre, che gli raccontò la guerra nella quale aveva combattuto. (Una parte di questo post era stata pubblicata la scorsa primavera quando E/O