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«I numeri reali e immaginari per capire l'uomo»

Autore: Sergio Roic
Testata: Corriere del Ticino
Data: 30 gennaio 2015

L’uomo che credeva di essere Riemann è un affascinante romanzo d’esordio dell’autrice italiana Stefania Piazzino. La storia personale di un matematico dei giorni nostri che credere di essere il grande Riemann, autore di una celebre ipotesi-rompicapo, è avvincente ed emblematica. Abbiamo intervistato la «romanziera dei numeri» a proposito delle motivazioni, delle scelte e del tema, in qualche modo inusuale, del suo libro.

Credere di essere un altro e agire di conseguenza è un camuffamento psicologico ed esistenziale che concerne anche il protagonista del suo romanzo: egli crede di essere il matematico ottocentesco Riemann. Qual è la verità del matematico che crede di essere Riemann? E perché questa verità esistenziale cozza, in specie quando si parla della celebre «ipotesi di Riemann», con tutta una serie di interessi concreti?

«Lei mi chiede per due volte una verità, ma il problema del protagonista è che scopre di non sapere la verità. Ernest Love è un grande matematico. La genialità non può essere millantata e, all’inizio del libro, questo fatto è ribadito dalla dichiarazione di Ernest stesso: un matematico non può che essere un buon matematico, altrimenti non lo è affatto. Ma un giorno arriva una notizia che lo sconvolge: l’ipotesi matematica su cui lavorava da una vita è stata dimostrata. Cosa rimane a uno come Ernest? Nella vita del protagonista pare filare tutto liscio fino a quando l’identità che lui e gli altri gli avevano attribuito salta per aria. Ernest aveva creduto di essere quello che faceva, ciò per cui era riconosciuto. E allora la verità gli bussa alle porte dell’anima; non si rivela, ma lo disturba tanto che la sofferenza lo trascina a sostenere di essere un’altra persona. Qualcuno lo definisce pazzo, lo stesso psichiatra che lo prende in cura non sa che diagnosi elaborare: ma si tratta solo di un’esigenza di narrazione del protagonista stesso, che ha bisogno di raccontarsi con parole nuove, ha la necessità di trasformare il materiale ostinatamente muto e doloroso in una nuova storia, che dia un senso o una risposta alla sua verità esistenziale. Potremmo definirla un’operazione artistica tout court. Tant’è vero che le qualità individuali di Ernest, che lui sostenga o no di essere Riemann, rimangono immutate. Certo, poi c’è il problema degli interessi concreti. Il processo di individuazione, come lo definisce Jung, fa i conti con l’esterno, che vuole sempre da noi qualcosa, che ci inquina la mente con mille voci, mille pretese, e di questo ne parlano una quantità di saggi e libri di psichiatria. L’ipotesi di Riemann per il protagonista è una chimera personale, è la dedizione e la passione, è la messa in scena matematica del suo dilemma esistenziale. Per il mondo che lo circonda è una scoperta che porterà un beneficio, anche economico per chi ne è in possesso. Ernest si immagina Riemann per avere il coraggio di percorrere la sua via, a dispetto delle condizioni esterne».

Il romanzo è anche la storia, affascinante ma a molti ignota, del rapporto fra i numeri reali e quelli immaginari: come le è venuto in mente di scrivere una storia a proposito dei numeri?

«Avevo un’immagine che mi ossessionava: quella dei ragazzi prodigio alle olimpiadi di matematica. Ho iniziato a cercare, non so cosa, ma seguendo un percorso intuitivo/creativo. Certamente avevo urgenza di esprimere e scoprire, scrivendo, la domanda e la risposta che cercavo, su come ricostruire, anzi, ritrovare se stessi dopo che ci si è convinti di avere perso tutto. Ho cominciato a leggere libri sui matematici. Un giorno, parlando di questo mio impegno con una persona, ho scoperto che sul lago Maggiore, non lontano dal mio paese d’origine, c’è la tomba di Riemann. Questa coincidenza mi ha portato a lui. Quando ho letto dell’ipotesi ho capito che era la perfetta metafora per esprimere quello che non riuscivo a dire. Il paesaggio di Riemann, i numeri immaginari e reali, la retta critica che attraversa il paesaggio e su cui sono disseminati i numeri primi, sembravano raccontare di come l’uomo, tra immaginazione e realtà visibile, si posizioni felicemente e dolorosamente, con grande e coraggiosa consapevolezza».

Ne Il principio antropico di Frank Tipler e John Barrow si parla delle costanti di natura, espresse in numeri, alla base dell’universo in cui viviamo. Se esse differissero anche di pochissimo il nostro mondo non esisterebbe tale qual è. Alla base di tutto ci sarebbe, quindi, un valore numerico. Abbiamo prima cominciato a contare o a parlare e scrivere nel necessario esercizio di descrizione del mondo?

«Le neuroscienze sono arrivate a scoprire che il nostro cervello non ragiona con le parole, ma per immagini e in senso auditivo. La bella parola Eidos, idea e immagine e essenza, mi aiuta a credere che non possiamo avere iniziato né a contare prima di parlare o scrivere, né l’inverso. Quando Oceano discute con Prometeo riguardo al furto del fuoco, a un certo punto enuncia una serie di idee, eidos, e afferma che la matematica è la più grande idea di tutte. La matematica non è contare, quello è una conseguenza. E pare davvero che l’universo intero sia regolato da principi che sono matematici e straordinariamente precisi e sofisticati. Una musica della natura. E per natura non intendo solo ciò che è visibile. Teoria del caos, relatività, gravità, sono metafore appetitose per chiunque voglia descrivere una mela che cade dall’albero o una relazione umana. Penso a Jung che per definire il processo creativo parla di funzione trascendente, penso allo scienziato Fechner che elaborò un teorema che mette in relazione lo stimolo fisico con le risposte sensoriali, oppure alla meraviglia della cabala, dove la parola emozione si dice misura. E contare e raccontare il mondo che ci circonda sembrano due cose molto diverse eppure così simili».