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L'ultimo volume della tetralogia della scrittrice napoletana

Autore: Francesca D'Ambrosio
Testata: Flanerì
Data: 27 febbraio 2015

Quando finalmente ho preso in mano Storia della bambina perduta (e/o, 2014), di Elena Ferrante, quarto e ultimo volume del ciclo L’amica geniale, mi sono sentita un po’ come quando ti manca l’ultimo tassello di un puzzle: dopo aver atteso quasi un anno da ogni pubblicazione, finalmente chiudi il cerchio, vedi come va a finire questa saga napoletana, che parte dagli anni Cinquanta passando per il Sessantotto, i movimenti studenteschi, il femminismo, le stragi, la camorra e il terremoto, fino a Tangentopoli e al Berlusconismo. Al centro naturalmente l’amicizia di Elena e Lila, due bambine capaci e brillanti, cresciute nel fango di quella miseria napoletana inalandone gli odori e i miasmi, che ti si appiccicano dentro mentre leggi e ti invischiano con una trama sottile nella materia del romanzo. Perché la scrittura di Elena Ferrante è urgente e feroce, una bestia che ti bussa alla porta come l’Orco più nero: non puoi non aprire. E allora ti butta addosso il sole amaro di Napoli, carne secca e cenere come a Carnevale, quando tutto è festa e colore, ma sa già di putrido. La lezione si impara fin da piccole: ci sono solo due modi per sopravvivere, puoi sgobbare sui libri per scappare lontano e ricominciare, come fa Elena, o puoi restare e lottare, come Lila. È un gioco, una scommessa, una pallottola che gira. Pari o dispari, devi scegliere. Se parti perché vinci una borsa di studio all’Università e diventi abilissima con la penna, trasformi Napoli in inchiostro per le tue pagine; se resti perché non hai potuto studiare, ma sei brillante e carismatica, puoi provare a domarla, a dettare tu le regole del gioco. Qualunque sia la scelta, serviranno coraggio e intelligenza, altrimenti finisci come il salumiere, il calzolaio, il falegname e le loro mogli, i loro figli e i figli dei figli: intere generazioni abbrutite, rovinate, sbranate dalla bestia. Come nel 1980, il 23 novembre. Elena e Lila sono in casa, chiacchierano. Improvvisamente, un tuono spaventoso, una tempesta invisibile che avvolge tutto, scoppia sotto i piedi, smargina ogni cosa. La terra si rivolta, manda tutto in frantumi, spazza via la casa, il rione, l’intera città, fino al «mare di fuoco sotto la crosta terrestre, e le fornaci delle stelle, e i pianeti, e gli universi, e la luce dentro la tenebra, e il silenzio nel gelo». È il famoso terremoto dell’Irpinia che, così descritto, riporta alla mente quei celebri versi, soprattutto nelle immagini finali: «Sovente in queste rive / Che, desolate, a bruno / Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, / Seggo la notte; e su la mesta landa / In purissimo azzurro / Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Il mare, e tutto di scintille in giro / Per lo vòto seren brillare il mondo». E se Elena, nonostante la paura riesce a governare quell’inferno mettendo in salvo sé e l’amica, Lila ne rimane preda, si sgretola, si disperde. Lei, così attiva, coraggiosa e carismatica al punto da dominare tutti, appare ora fragile, ossessionata dal dissolversi della realtà, da quel perpetuo smarginarsi delle persone e delle cose che l’aveva tormentata fin da piccola e che solo ora, riesce a confessare all’amica: «Ti ricordi quanto mi faceva orrore il cielo di notte a Ischia? Voi dicevate com’è bello, ma io non potevo. Ci sentivo un sapore di uovo marcio col tuorlo giallo-verdognolo chiuso dentro l’albume e dentro il guscio, un uovo sodo che si spacca. Avevo in bocca stelle-uova avvelenate, la loro luce era di una consistenza bianca, gommosa, si attaccava ai denti insieme alla nerezza gelatinosa del cielo, la tritavo con disgusto, sentivo uno scricchiolio di granuli. Mi spiego?». Lila si esprime così, per immagini potenti e sconnesse, per voli pindarici che squarciano il reale e gli restituiscono senso e materia. Ed Elena lo sa: fin da piccola era rimasta indietro a guardarla, ammirata, specchiandosi in lei per sfuggire il confronto, faticando una vita sui libri per starle al passo, per affrancarsi dalla sua ombra. Si erano conosciute da bambine, mentre giocavano nel cortile con le loro bambole di pezza, che per dispetto si erano buttate a vicenda – perdendole – nello scantinato del rione e non si erano lasciate più. Una amicizia bella e tenebrosa, impregnata di carezze e di silenzi, di progetti comuni e periodi di assenza, di rivalse e generosità. Una danza dei contrari, la forza di un cerchio che ti spinge nel suo centro mentre l’altra prova a sputarti lontano. È una bella mattina in festa, le bancarelle vendono zucchero filato e l’aria sa di mandorle tostate. Lila porta fuori sua figlia e quella di Elena a comprare dolciumi. Poi il momento lancinante, inizia la storia della bambina perduta: le sue trecce si confondono coi fili delle bambole, con la storia di Napoli e dei suoi passati fasti: gli orti, i palazzi le ville e il porto, fino al sangue, gli scugnizzi, i pidocchi… perché quando la bestia si risveglia affamata e ingoia i suoi figli, cosa rimane? Solo un guscio marcio, una carta sporca, e una voce, vuota, de’ criature.