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“L’Alligatore torna per colpa dei miei lettori"

Autore: Maurizio Crosetti
Testata: La Repubblica
Data: 13 marzo 2015

L’ALLIGATORE è tornato. Se n’era rimasto acquattato tra le pagine di Massimo Carlotto per sei lunghissimi anni, immobile, mimetizzato tra i capoversi. Aspettava. Aveva bisogno di spalancare le fauci al momento giusto per divorare una storia in attesa, e quel momento è arrivato. La banda degli amanti (edizioni e/o) rimette dunque in pista Marco Buratti, investigatore senza licenza, appunto l’Alligatore: la sua palude è sempre la provincia veneta, quel Nord Est così inquietante e fascinoso, sporco e perfidamente creativo, e nella sua squadra sbilenca e bizzarra ci sono ancora l’angelo custode Beniamino Rossini con tanto di braccialetti e, naturalmente, Max La Memoria, un tipo che già solo il nome vale il prezzo del biglietto.
Il male qui si combatte contro le regole, attraversando percorsi laterali. Non finisce mai, e non si finisce mai.
Carlotto, sei anni non sono stati un po’ troppi?
«Avevo bisogno della storia giusta. Cercandola ne ho trovate tre: il prossimo Alligatore arriverà entro la fine dell’anno».
Il pubblico cominciava a spazientirsi.
«Mi fermavano per strada, mi scrivevano. Un signore mi ha preso da parte e mi ha detto: Non si trattano così i lettori».
Come si trova una storia giusta?
«La realtà è sempre il dato di partenza, però bisogna filtrarla, selezionarla. Se bastasse copiare la cronaca, saremmo tutti giallisti. Io mi sento discontinuo ma non casuale. Lo spunto mi viene anche recapitato a casa, insieme alla posta o dentro il computer: la gente suggerisce trame, racconta casi personali, ricevo decine di mail con potenziali romanzi da decifrare, almeno una cinquantina a settimana».
C’entra qualcosa, il Veneto?
«Rimane un formidabile laboratorio criminale. Qui la malavita è diventata più creativa, ha un’inventiva pazzesca».
Stavolta l’Alligatore si occupa di amanti ricattati: davvero è così frequente?
«Molto, perché oggi è facilissimo fotografare qualcuno, spiarlo e poi ricattarlo, un crimine in continuo sviluppo. Anche tra le persone che si lasciano male, purtroppo a volte succede. Mi erano giunte due o tre segnalazioni, mi sono incuriosito e ho costruito la trama».
Lei ha parlato di altre due storie in costruzione.
«Mentre ne scrivo una, già accumulo il materiale per le altre. Non è automatico, magari lo fosse. Nel caso, non sarebbero trascorsi sei anni tra l’ultima storia dell’Alligatore e questa. La prossima arriverà entro dicembre».
Come funziona il rapporto con i suoi lettori/suggeritori?
«Sono complici, molto esigenti e preparati. Non posso tradirli, accontentandomi di una scrittura veloce. Loro stanno al gioco e intervengono: la svolta sono i social, dove esiste un contatto continuo. Facebook e Twitter mi danno l’esatta misura del mio lavoro, quasi minuto per minuto».
Dopo tanti anni, chi è per lei l’Alligatore?
«Nacque insieme al desiderio di un personaggio diverso, ormai due decenni fa, quando si cominciò a investigare privatamente anche da parte della difesa. Così inventai questo crociato uscito di galeraconl’ideafissadellaverità, uno che si caccia nei guai e poi viene tirato fuori dagli amici».
Un’idea fissa, la verità, ma quasi mai nei canoni istituzionali. È questo il fascino dell’Alligatore e della sua banda?
«Credo di sì. Loro si muovono in un terreno parallelo, fuori e dentro le regole, sguazzando tra legalità e illegalità. La trama è un pretesto. Io amo i giallisti che sanno descrivere quello che c’è intorno, gli ambienti, i sapori».
Si torna alla provincia: è questa la vera Italia?
«Noi giallisti abbiamo avuto un’intuizione straordinaria, scrivere dei luoghi dove viviamo. Abbiamo evocato atmosfere e disegnato in qualche modo la mappa di una nazione, dalla Vigata che non esiste fino a Padova. Tra l’altro, questo ci permette di essere molto letti e tradotti all’estero, e di formare una certa idea dell’Italia. Il lettore cerca sempre un territorio, per conoscerlo o riconoscerlo».
Del Nord Est operoso e oscuro si è parlato e scritto molto, non si rischia il cliché?
«Qui sta avvenendo una mutazione antropologica profonda. Da un lato esiste una fortissima reazione alla piccola criminalità quotidiana, si conducono battaglie più o meno leghiste contro il rom e i neri, poi però si chiudono gli occhi di fronte alla mafia. Forse perché la mafia sostiene l’economia, fa girare i soldi e li ripulisce, mica svuota gli appartamenti. C’è dell’ipocrisia, in questo, ma anche molto materiale interessante per la scrittura».
Il tessuto criminale sembra nutrirla in profondità.
«Quando vado a bermi uno spritz, nella passeggiata verso il bar incontro sempre qualche amico poliziotto o giornalista, e per tutti la domanda è la stessa: cosa sta succedendo? Le risposte, come dicevo, fioccano».
Ma allora il crimine quotidiano non è solo nei titoli di un Tg o negli infiniti contenitori televisivi del pomeriggio.
«Purtroppo coinvolge tanta gente in modo diretto. Quasi tutti sono testimoni, se non vittime, e alcuni sono attori. Ma da noi, caso unico in Europa, sembra che la gente abbia un bisogno forte di parlarne con lo scrittore: io ricevo chiliechilidiattigiudiziari,mpiace scavarci dentro e ascoltare, chiedere in giro, rispondere. Non è mai tempo perso».
Lei scrive di “cuore fuorilegge”, queste due parole accostate devono piacerle molto. Cosa significa?
«Credo sia un’idea del mondo che tiene insieme quello che non funziona e non è giusto, accanto al rispetto di valori precisi e condivisi.Lavecchiamalavitaquesto rispetto l’aveva, non mancando a volte di un sottofondo persino morale. Invece la criminalità globalizzata è solo spietata, cieca».
Non pensa che in Italia si scrivano troppi gialli?
«Forse sì. Per anni è stato pubblicato di tutto e di più, e questo ha contribuito a rafforzare i pregiudizi nei confronti del genere. Però il mercato non perdona, se non vali non vendi. Poi, si può anche dire che soltanto da noi esiste questo pregiudizio verso il noir. All’estero nessuno si sogna di considerarla letteratura di serie B».
Anche nel suo passato c’è una storia criminale in parte oscura. Senza l’esperienza della prigione, della latitanza, dei processi e della grazia avremmo avuto Carlotto scrittore?
«Non credo che avrei mai cominciato, però la scelta del genere narrativo è stata un’operazione a tavolino, accadde in Sudamerica. Per quanto riguarda il resto, sono trascorsi ormai quarant’anni ed è tutto sepolto, archiviato. Io non ci penso più. Una vita contiene moltissime esistenze».
Potremmo chiamarle trame?
«Sì, volendo potremmo chiamarle così».