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Una boss e lo scuorno dell'amore

Autore: Davide Morganti
Testata: Il Mattino di Napoli
Data: 30 marzo 2015

Le parole di Luigi Romolo Carrino sono lumini, luci, fiaccole, fuochi, incendi, luminarie, fuochi d'artificio a seconda di quello che deve descrivere, dire, narrare, raccontare: se qualcuno vi dovesse dire che ha una scrittura barocca, be’, sollevate le spalle perplessi, se qualche altro dovesse sostenere che ha una scrittura eccessiva, strabuzzate gli occhi sorpresi da quella banalità. Nel suo ultimo romanzo La buona legge di Mariasole (e/o, pag. 235, euro 16) Carrino prosegue la cupa malìa di «Acqua storta», il precedente sontuoso romanzo, senza però ripeterne la scena.
Inizia con il funerale di Giovanni, il marito di Mariasole che aveva una relazione omosessuale con il contabile Salvatore, ucciso anche lui. I toni sono scuri, ferini, la donna è costretta a diventare capoclan: la morte non è ancora sottoterra che la vita, prepotente, picchia con le nocche forti sul suo dolore. Da qui un susseguirsi di tensioni, tradimenti, agguati: morte, insomma, morte su cui si trovano le donne: potenti, madri, mogli, soprattutto fatte dell'amara scienza della sopraffazione. E l'amore di cui parla Carrino è uno scuorno: «A che serve dirti ti amo?
Nella nostra città non ha nessun valore dire ti amo. Lo dici quando abbassi la testa e ti metti i capelli dietro l’orecchio e sai che stai morendo e non te ne devi fare accorgere. È quando butti sale dietro le spalle per scongiurare la fattura di una donna che vuole rubarti il marito che lo dici. È quando metti gli occhi su un punto qualunque intorno a te che dici ciò che non si dice a parole nella nostra città». C'è più scuorno nell'amore che nella morte, è un vizio di forma, di relazione, di sopravvivenza; Carrino ne descrive la sua traiettoria irregolare, spesso tragica. È un romanzo greco, antico, ma senza gramaglie.
Lo scrittore cadenza il tempo di ognuno come fossero ultimatum, scadenze imminenti di lutto e di rassegnazione. «Sarò la sorella del silenzio e dell’omertà. Sarò la facciache ordinerà chi vive e chi muore nella nostra città. Il mio destino è quello di portare avanti questa famiglia. Il mio destino è di averti perso e non c’è scampo, Giovanni, non c’è un altro modo, un altro spazio per me, come non c’è stato per te. Devo essere quello che non avrei mai voluto essere, ma è la vita che mi sta chiamando, la vita mia che devo vivere e non posso dire un altro no». La scrittura di Carrino è fatta di rintocchi scuri, avanza come una processione pasquale, i personaggi sono creature che non riescono a scappare dalla colpa, si muovono insofferenti, squieti, rallentati dalla miseria che stordisce le loro azioni.
Nel romanzo il destino è fermo, rigido, immobile: non lascia salvezza, arriva su chiunque come un'ombra; non si esce dalla sua zona, resta attaccato addosso come una malattia mortale e per quanto si scappi, ovunque si vada, il destino, restando fermo al suo posto, ti viene a prendere. «Dobbiamo arrivare alla sala in fondo. Ci precede Nunzio con passo cadenzato. È un uomo impenetrabile. Non riesco a inquadrarlo. Non riesco a leggerlo. Camminiamo per un lungo corridoio».
Il destino ha questa forma: ci precede sempre nel cammino, chiuso, misterioso, che si fa stretto stretto fino a soffocare. Mariasole è donna chiusa dentro questo imbuto, su di lei e su suo figlio la vita cala come una cappa. Carrino ha scritto un romanzo fatto di una strana afa, che rallenta i movimenti, una sorta di ralenti feroce che sottolinea l'orrore dell'uomo in ogni suo dettaglio, attimo dopo attimo, così da essere evidente per il lettore la circostanza delle azioni. Quanto male c'è in questo struggente romanzo, quanto terribile amore che, per scuorno, non sa dove trovare pace, irrequieto nella vita, a disagio nella morte. Si conficca nei corpi più per trovare riparo, che per dare ristoro.