Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Passeggiata nel "Giardino persiano"

Autore: Liliosa Testa
Testata: La Fedeltà
Data: 19 ottobre 2015

“...Tutto era estraneo, troppo grande, anche i nostri letti. Mi mancava la nostra casa in Marocco, la mia stanza, il mio letto, l’aria fresca del giardino che penetrava attraverso le tende leggere...”. Chiara è una bambina di nove anni catapultata con la sua famiglia in Iran, negli anni in cui il paese è stravolto dalla rivoluzione islamica dove domina la figura dell’Ayatollah Khomeini.

“Il giardino persiano”, edizioni E/O, è la storia autobiografica scritta da Chiara Mezzalama, figlia del diplomatico Francesco Mezzalama e di Elena Falletti di Villafalletto. Siamo nell’estate 1981, Chiara, con la mamma Elena e il fratello Paolo, raggiunge il padre, ambasciatore d’Italia in Iran, per trascorrere un’estate in famiglia, in un paese stravolto dalla rivoluzione islamica e dalla guerra contro l’Iraq.

La sguardo è quello di una bambina protetta da una gabbia dorata, velatamente violata dalla realtà cruenta e dura che la circonda. Un’esplorazione tra il dentro e il fuori, il fisico e metaforico.

Chiara Mezzalama, 43 anni, di origine romana, vive a Parigi con il marito e due figli. Figlia di un diplomatico, ha passato la sua infanzia all’estero. Scrittrice, traduttrice e psicoterapeuta, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Avrò cura di te”, nel 2009, edizioni E/O. Scrive per la rivista della Società italiana delle Letterate leggendaria e per il blog di lettura Tempoxme, collabora con la rivista Left. Ha scritto un diario sugli attentati terroristici a Parigi “Voglio essere Charlie: diario minimo di una scrittrice italiana a Parigi”, edizioni Estemporanee.

Chiara Mezzalama impegnata in giro per l’Italia nella presentazione del suo romanzo, sarà a Villafalletto giovedì 5 novembre.

Pubblichiamo di seguito l’intervista che l’autrice ha gentilmente concesso a “La Fedeltà”. “E la guerra si fece sentire. Subito. Fu la nostra prima notte nella casa celeste, come la ribattezzò mia madre per via del suo colore, ma il riferimento era anche nel cielo, come si trattasse di un luogo stellare, carico di suggestioni, un posto fuori dal mondo. Ma il mondo non ne voleva sapere di restare fuori. Paolo e io scegliemmo i letti, cominciammo a tirare fuori i nostri pupazzi, i libri e i vestiti, era un modo per prendere possesso dello spazio, usare gli oggetti per conquistare le stanze. Ci restava sempre il dubbio di quale fosse casa nostra, di dove fossero le nostre radici. Nomadi di lusso, ma pur sempre nomadi”.

Dopo questa prima notte da “straniera” nello splendido palazzo di uno dei principi Qajar a Farmanieh, quelle stanze e soprattutto il giardino sono entrati nella sua vita conquistandola. Sono trascorsi trent’anni dopo quella lunga estate e i ricordi riemergono nel suo secondo romanzo. Da cosa nasce il desiderio/bisogno di scrivere un romanzo autobiografico?

Trovo sempre difficile risalire all’origine di un’idea, al perché si abbia voglia o necessità di scrivere qualcosa in un determinato momento. In questo caso tuttavia credo di aver individuato almeno una ragione: i miei figli hanno più o meno l’età che avevo io quando partimmo per l’Iran. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto raccontare loro questa storia prima che i miei genitori diventassero troppo anziani. Chissà forse un tentativo di fermare il tempo, di farlo tornare indietro. La scrittura nasce spesso da una nostalgia, una mancanza.

Oltre quei saloni principeschi c’era quel meraviglioso “giardino persiano”, dove una Chiara bambina vive esperienze che la cambiano, impara a infrangere confini fisici, ma anche interiori e mentali. Cosa rappresenta per lei quel giardino che dà il titolo al romanzo?

È il “giardino segreto”, quel luogo dell’infanzia dove si impara a crescere, si scoprono segreti, ci si nasconde dal mondo degli adulti. Credo che ognuno abbia il suo “giardino segreto”. Nel mio caso si è trattato di un giardino molto particolare. Nella tradizione persiana il giardino rappresenta il paradiso terrestre, un luogo di calma, bellezza e ordine che protegge dal caos del mondo. Quando siamo arrivati, il giardino di Farmanieh era abbandonato e il caos era quello della rivoluzione islamica e della guerra. Il giardino ha certamente rappresentato il tentativo di resistere al caos, alla morte, alla paura.

Che peso ha avuto e ha ancora a livello emotivo quel muro di recinzione che la separava difendendola da quel mondo sconosciuto, temuto ma anche tanto attraente, lontano ma così vicino alla vita che scorreva nella Teheran di quegli anni?

Il muro è molto importante, lo fu allora e lo è adesso, metaforicamente. Il muro ha due lati, uno interno e uno esterno, da un lato protegge, dall’altro esclude, dipende dal punto di vista. Questa distinzione è molto importante per la scrittura: da un lato è necessario essere immerse nella realtà per poter scrivere, ma arriva il momento in cui bisogna proteggersi, isolarsi per poter raccontare quella stessa realtà. Ho sempre oscillato tra queste due posizioni, tra dentro e fuori. Credo di averlo capito allora, attraverso quel muro, quel confine. Mi sembra che oggi i muri continuino a crescere, a dividere, escludere più che proteggere. Mentre scrivevo ho pensato molto al romanzo di Bassani “Il giardino dei Finzi Contini”, anche lì il muro ha un ruolo fondamentale. Il protagonista lo scavalca per andare a trovare la sua Micòl.

Un giardino incantato ma non immune dai tragici eventi che si muovevano nella Teheran dominata da Khomeini: “il faccione dell’ayatollah Khomeini sembrava trafiggerti con lo sguardo da ogni direzione”. Paure emulate in giochi di bambini che non sempre bastavano per tenerla lontana da interrogativi e dubbi, così di grande spessore per una bambina di nove anni.

Nella testa di quella bambina che felice saltellava alla scoperta dei nascondigli di quel giardino, si affacciavano pensieri di esecuzioni imposte dalla “sharia”, visioni di cadaveri che penzolano da gru, immagini di bambini con i kalashnikov... Una realtà che come scrive “non avrebbe mai dimenticato”. Come risponde una bambina a interrogativi tanto duri e violenti negli anni in cui si apre al mondo? Cosa si impara da un’esperienza come questa?

Per anni mi sono portata dietro, forse ce l’ho ancora, la paura dei controlli da parte di qualsiasi forma di autorità (a scuola, all’aeroporto, per strada...). C’era all’epoca questo clima di terrore, qualunque cosa si dicesse o si facesse si rischiava di essere puniti, anche gravemente, quasi sempre ingiustamente. Un senso di angoscia ci ha accompagnato in quegli anni. Eppure a ripensarci oggi, è stato un periodo felice della mia vita. I bambini hanno questa capacità incredibile di trasformare anche le cose peggiori in una grande avventura. Di certo ho imparato cosa significa la guerra e a non dare per scontata la fortuna di vivere in tempo di pace. Ho imparato che non a tutte le domande si può dare una risposta.

“Il giardino persiano” e il giardino di Villafalletto, il fico persiano e il cedro piemontese. Due mondi lontani, non solo geograficamente. Come si coniuga nei suoi ricordi ma soprattutto nel suo animo questa forte dicotomia dei sentimenti?

Questa frattura tra la vita “normale” in Italia e la nostra esperienza a Teheran mi ha fatto molto soffrire durante l’adolescenza. Non mi sentivo a casa da nessuna parte. Faticavo a tenere insieme queste due esperienze così diverse, mi sembrava di non essere capita dai miei coetanei. Villafalletto ha sempre rappresentato un luogo di ritorno e di radici. Ricordo l’emozione quando venivamo a trovare la nonna. Credo che il cedro piemontese (che poi è un albero mediorientale) abbia contribuito a sostenere il mio senso di identità e di appartenenza.

“«Queste donne possono parlare solo con gli occhi» disse mia madre «se ci fai attenzione riesci a capire quello che pensano o desiderano attraverso lo sguardo». Così imparai a guardare gli occhi delle donne, e a scoprire il loro linguaggio silenzioso. Tutto era concentrato lì. In quegli occhi di ossidiana o di smeraldo, incorniciati dal velo,... Incrociare il loro sguardo era come conoscere un mondo segreto attraverso una fessura”. Quale sentimento sente oggi da donna adulta per le donne “incorniciate dal velo”?

Questa è una domanda molto complessa che richiederebbe un’intervista a sé, magari la prossima volta. Proprio ieri ho letto questa frase della regista iraniana Rakhshan Banietemad: “La vita di una donna iraniana, qualunque sia la sua posizione sociale o politica, è all’insegna della resistenza. E questa resistenza, tra mille difficoltà, rende la donna vincente”, con o senza velo!

“Come il vento di primavera sono venuto, ho accarezzato le erbe e i fiori e me ne sono andato” in questi versi scritti da suo padre si racchiude la vita di un diplomatico, che inevitabilmente trascina “anche noi in questo vento che passa e non si ferma”. Da donna matura e madre si sente debitrice verso suo padre e sua madre di aver avuto quel coraggio? Si sente una privilegiata per aver potuto viaggiare e vivere in mondi lontani o alienata perché sradicata dalle sue radici?

Adesso che mi ci fa pensare, credo di aver scritto questo romanzo per ringraziare i miei genitori per ciò che mi hanno dato. Viaggiare, vedere il mondo, imparare le lingue, soprattutto quando si è piccoli, senza avere pregiudizi e sovrastrutture è un’occasione di crescita incredibile. Adesso vivo in Francia; nel mio piccolo è un modo per offrire ai miei figli qualcosa di simile. Non riesco a immaginare di vivere per tutta la vita nello stesso posto.

Come vede l’Iran di oggi?

Mi piacerebbe molto fare un viaggio in Iran e spero che il romanzo possa essere un’occasione per andarci. Credo che sia un paese pieno di vitalità e di contraddizioni, un paese complesso che deve fare i conti con una storia durissima. Eppure tutti mi dicono che gli iraniani e le iraniane sono delle persone straordinarie. Il recente accordo sul nucleare sembra in parte aver sdoganato l’Iran dall’immagine di “paese canaglia”. Molte cose stanno cambiando.