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In paradiso – Peter Matthiessen

Testata: 2000 battute
Data: 14 novembre 2015
URL: https://2000battute.wordpress.com/2015/11/14/in-paradiso-peter-matthiessen/

Questo è il secondo libro che ho trovato nello scaffale un po’ in disparte della Libreria Luxembourg. Il primo è stato Destinatario sconosciuto che è un grande racconto. Questo In paradiso è un grande romanzo, di uno scrittore poco conosciuto da noi visto che della sua vasta opera non c’è in italiano che questo titolo e un reportage naturalistico.

Accadono fatti stranissimi. Di certi scrittori americani contemporanei vengono pubblicate anche le opere più inutili, vera spazzatura maleodorante, e invece di uno pluripremiato e capace di un libro meraviglioso come questo, non c’è quasi nulla. Ho rinunciato a capire e non ho nemmeno voglia di sprecare spazio. Voglio parlare di questo libro e basta.

Si può ancora scrivere di Auschwitz oggi? Scrivere di Auschwitz senza retorica, senza ideologia, senza strumentalizzare, senza ripetere l’ovvio, senza copiare e senza vergognarsi dovendo porsi al cospetto dei titani che ne hanno scritto in passato? Non mi riferisco a studi storici o politici, e nemmeno mi riferisco a quanti, in un modo o nell’altro, pretendono di riscrivere a gusto loro una storia che è scolpita nel tempo. Mi riferisco invece ai narratori, a chi racconta storie. Si possono ancora scrivere grandi storie su Auschwitz, oggi?

Avrei detto di no, o probabilmente no, prima di leggere In paradiso. Invece Peter Matthiessen l’ha scritta una grande storia su Auschwitz e anche una grande storia ebraica senza ebraismo, una grande storia laica, una storia di uomini e tempo, e di luoghi nei quali la coscienza si nasconde.

Clements Olin è il protagonista della storia: poeta e professore americano di origini polacche si reca ad Auschwitz cinquant’anni dopo gli orrori. Partecipa a uno strano ritrovo tra alcune decine di persone di estrazione e provenienza delle più varie. Un ritrovo spirituale per alcuni, per altri religioso, per altri ancora una ricerca, o anche un estremo tentativo di trovare sollievo. Vi sono americani ed europei, cattolici, ebrei e buddisti, israeliani, tedeschi e palestinesi. Partecipano dei superstiti del campo di sterminio e figli di superstiti, insieme a figli di carcerieri, due suore e un prete cattolico, due rabbini, molti atei, perfino dei rumeni e degli scandinavi. Questo gruppo di sconosciuti si riunisce presso le strutture di accoglienza del campo di Auschwitz per soggiornarvi per i giorni previsti dall’iniziativa di testimonianza e memoria.

Auschwitz è il luogo archetipo di desolazione, morte, terra ghiacciata intrisa di dolore, luce perennemente livida, baraccamenti ferocemente spogli, saturi di memorie di voci, odori e corpi.

Ognuna di quelle persone che là si ritrovano ha un peso che la schiaccia, un dolore cupo, un ricordo che la tormenta. Ognuno è inseguito da un senso di colpa che risale da oscurità senza nome.

Non che Olin dubiti della loro sincerità. Ma chi tra i presenti, egli stesso incluso, ha davvero compreso la conclusione cui giunsero Borowski, Primo Levi e altri, e cioè che nessuno nei campi di sterminio, neppure le vittime, era del tutto innocente rispetto a ciò che accadeva, nessuno era completamente diverso da chi perpetrava tali orrori? Non erano tutti compromessi, foss’anche solo in quanto membri di una specie capace di tali crudeltà? Forse solo i proprietari di tutte quelle scarpine erano morti restando puri.

Il gruppo si interroga lungo le direttive della storia del Novecento, si riunisce in preghiera e meditazione, ripercorre i luoghi fatali all’interno del campo. Il gruppo è una moderna umanità dolente, o che vuole dimostrarsi tale, in cerca di redenzione e perdono e sollievo.

C’è un guastatore, tuttavia. Un uomo rude, dai modi volgari, insopportabilmente insolente e cinico. Si chiama Earwig, nessuno conosce la sua storia, lui non si confida e nessuno capisce cosa ci faccia lì.

Davanti al suo piatto di salsicce dure e fredde e patate quasi crude, con pane nero stantio, un’americana con un cappotto di pelle foderato di pelliccia si lamenta che nulla l’aveva preparata alla terribile esperienza del mattino, neppure quel film sul buon tedesco proprietario di una fabbrica a Cracovia che salvò tutti gli operai della sua lista, un gruppo di adorabili ebrei. «Mi fece venir voglia di correre fuori dal cinema» esclama la donna «e fare qualcosa per quella gente!» Al tavolo accanto Earwig si gira verso di lei come una belva inferocita. «Fare qualcosa signora?» ruggisce. «Per esempio? Invitare a pranzo un ebreo?» «Lei è una persona orribile!» protesta l’americana. «Non c’entra niente con questo ritiro spirituale!»

Il ritiro spirituale dell’umanità avviene calpestando le ossa dei morti e la propria storia. Non sarà quello che sarebbe dovuto essere. Le molte anime dolenti degli uomini e delle donne si avvicendano una dopo l’altra sul palcoscenico del racconto, ognuna con la propria pena, ognuna con la propria presunzione e col proprio rancore verso gli altri. L’unione dei dolori personali e delle spiritualità ferite produrrà odio. Ancora e sempre lo stesso odio che divide l’umanità in categorie, razze, ideologie, religioni; l’odio che scorre dai carnefici verso le vittime e poi prosegue dalle vittime che si fanno carnefici; lo stesso odio che sgorga dai canti d’amore e dalle invocazioni alla tolleranza; è l’odio che come una bile nera viene vomitato dagli uomini e dalle donne che pregano nella imprescindibile giustezza della loro fede e della loro ideologia o mancanza di fede e mancanza di ideologia.

È l’odio il sentimento che la notte di una Auschwitz presente in ognuno dei nostri giorni libera tra le persone riunite da Matthiessen.

I polacchi riprendono a odiare gli ebrei, ai figli dei carcerieri nessuno perdona la colpa dei padri, così come ai cattolici la colpa di aver compilato le liste, gli israeliani odiano i palestinesi e i palestinesi gli israeliani, le suore odiano chiunque metta in dubbio la parola del Papa, gli atei si scontrano con i religiosi, tutti odiano Earwig per la brutalità delle sue verità.

È una coreografia a suo modo grandiosa quella messa in scena da Matthiesen che nel luogo più opprimente per il peso dei simboli e delle memorie dà vita a un microcosmo di rancori e presunzioni e incomprensioni ed egoismi nel quale l’umanità intera si specchia come un orrido Narciso in un lago di odio. Nella rappresentazione dell’ordalia, il personaggio di Clements Olin attraversa ogni conflitto, prima osservando, poi mediando, poi ancora divenendo parte in causa e infine uno dei protagonisti di una storia che è una domanda senza risposta possibile.

In paradiso, titolo evocativo come pochi, è il dipinto della mano di un grande artista e uno dei grandi libri di questi anni.