PROLOGO
Donna di jazz. Quando avvicinava le labbra rosse al
microfono per attaccare Good Morning Kiss trattenevo
il fiato per godermi ogni singolo istante.
Imitava voce e stile di Carmen Lundy ma bisognava sforzarsi
per capirlo. Non avrebbe mai fatto carriera, nemmeno
nei locali di provincia. Cantava brani jazz perché erano l’unica
cosa in grado di tenerla aggrappata a una vita che faticava
a sopportare.
Il marito era convinto che avesse un amante. Mi aveva
allungato cinquecento euro appena ritirati dal bancomat
per scoprirne l’identità. Era un brav’uomo ancora innamorato,
non aveva nessuna intenzione di separarsi, voleva
solo capire perché l’amore della sua vita si fosse allontanato
da lui, dal loro mondo, per un altro. Con ogni probabilità
uno sconosciuto.
Un caso apparentemente facile per un investigatore
senza licenza, che si accontentava di poco per ficcare il naso
in affari di coppia che non lo riguardavano e che scordava
un attimo dopo il saldo della parcella.
Erano stati sufficienti un paio di giorni per scoprire che
la donna fingeva di recarsi in ospedale, dove lavorava
come infermiera, per un inesistente turno di notte e si infilava
invece in uno scantinato noto come il Pico’s Club.
Indossava un vestito verde smeraldo corto e scollato e
scarpe dello stesso colore, con un tacco vertiginoso, e si
per deva nel suo jazz. Era generosa e cantava fino a sfinirsi.
Conoscevo di vista il pianista che l’accompagnava, bravo
ma perennemente a secco di soldi, accettava qualunque
ingaggio. Mi disse che “Cora” era spuntata dal nulla e gli
aveva chiesto un provino. Si esibivano due notti a settimana
ma lei non voleva saperne di allargare il giro.
Il musicista era convinto che la donna si desse troppe
arie e non avesse la minima intenzione di seguire i suoi consigli.
Giudizio severo e fuori luogo. Lei aveva bisogno di
recitare il ruolo della star in un rifugio dove per qualche ora
la realtà non potesse fare irruzione. Avrei potuto chiudere
le indagini in quel momento. Ma non lo feci. Violai il patto
di fiducia con il cliente. Non avevo intenzione di fregargli
l’anticipo ma erano ormai due mesi che non riuscivo a staccarmi
dalla donna di jazz. Mi ero innamorato. Mi piaceva.
Volevo diventare il suo amante. Ma non sapevo come avvicinarla.
Di certo non potevo confessarle che la pedinavo
per conto di suo marito, che conoscevo la sua se con da vita.
Non volevo spaventarla e tantomeno farla in cazzare. Vo le –
vo amarla.
Quando stava sul palco a volte giocava con l’orlo del
vestito e io sognavo di allungare le mani e accarezzarle le
cosce. Belle, tornite. Cora era una quarantacinquenne alta,
slanciata, il cui fisico mostrava segni evidenti dell’assidua
frequentazione di palestre. Le tette ne avevano indubbiamente
be neficiato. Una cascata di capelli ricci e neri incorniciava
un volto ovale dai tratti delicati.
Per evitare di incontrare il consorte, che usciva di casa
per andare al lavoro, si fermava in un bar di periferia per
la colazione che consumava lentamente. Mi sedevo vicino
e la sbirciavo, ammirando le rughe agli angoli di quella
bocca che desideravo baciare.
Quando la spiavo nel buio del Pico’s Club, con il trucco
pesante che i fari ambrati del palco mettevano in risalto, si
faceva chiamare Cora. Una volta dismessi i panni della can –
tante tornava a essere Marilena. Di cognome faceva Dal
Corso.
Anche quella mattina la osservai mentre mangiava un
croissant con appetito leggendo il giornale. Alzò di scatto
lo sguardo e piantò i suoi occhi nei miei. Le sorrisi. Lei
rimase impassibile. Per un attimo temetti che mi avesse ri –
conosciuto e collegato al locale. Invece tornò alla sua colazione
e non mi degnò più della minima attenzione.
La seguii fino a casa, una palazzina ai limiti della campagna.
Padova era a qualche chilometro di distanza. Scesi
dall’auto e fumai una sigaretta fantasticando di suonare il
campanello e infilarmi sotto la doccia con lei.
Nella mia vita c’erano stati altri momenti in cui il desiderio
dell’amore di una donna mi aveva letteralmente travolto
ma questo era particolarmente difficile da gestire. Ne
avvertivo l’urgenza perché avevo bisogno di tenere a bada
un passato di ferite mai completamente rimarginate che ogni
giorno di più rischiava di diventare invadente. E distruttivo.
Non avevo nessuna intenzione di fare i conti con quelle
vecchie storie, ne sarei uscito sconfitto. Volevo vivere un
presente dignitoso. Solo l’amore o la tensione di un’indagine
pericolosa erano in grado di garantirmelo. Ma io non
avevo intenzione di ficcarmi nei guai. Desideravo dare e
ricevere tenerezza, affetto. Baci e carezze.
Risalii in auto e guidai fino al grande magazzino di elettrodomestici
dove lavorava il marito. Attesi che si liberasse
di una cliente che chiedeva informazioni su una lavastoviglie
ultimo modello, gli dissi che Marilena non lo tradiva e
gli restituii i soldi.
Lui finse di rifiutarli ma io tagliai corto ricordandogli
quanto guadagnava al mese.
«Io però sono sicuro che c’è un altro, mi racconta balle,
s’inventa turni in reparto» si inalberò l’uomo, alzando leggermente
la voce.
Gli appoggiai la mano sul petto per tranquillizzarlo.
«Tua moglie canta» spiegai. «In un club del cazzo, frequentato
da bevitori solitari e donne mature con la voce
roca per le troppe sigarette. È la sua isola di libertà, il suo
innocuo segreto. Se le togli anche questo la perderai».
«Non capisco» balbettò.
«Siamo maschi e certe dinamiche sono al di fuori della
nostra capacità di comprensione. Ascolta il mio consiglio:
lasciala campare in pace».
Gli strinsi la mano e me ne andai sollevato. Il caso era
risolto. Forse sarei riuscito a stare lontano da lei come suggeriva
il buon senso. Forse. Il mio cuore fuorilegge la pensava
diversamente.
Frugai tra i cd che tenevo in macchina e trovai subito
quello che conteneva il brano che volevo ascoltare: Dengue
Woman Blues del grande Jimmie Vaughan, fratello del
compianto Stevie Ray.
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