Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Speciale 8 marzo, conversazione con Simona Lo Iacono

Testata: Libreriamo
Data: 8 marzo 2016
URL: http://laparolaallautore.libreriamo.it/2016/03/08/speciale-8-marzo-conversazione-con-simona-lo-iacono/

Simona Lo Iacono, siracusana, magistrato a Catania, ha pubblicato i romanzi Tu non dici parole (Perrone, 2008), vincitore del premio Vittorini Opera prima, Stasera Anna dorme presto (Cavallo di Ferro, 2011), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea (ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande), il romanzo Effatà (Cavallo di Ferro, 2013), con cui ha vinto il Premio Martoglio, e il recentissimo Le streghe di Lenzavacche (Edizioni E/O).

Cara Simona, abbiamo già chiacchierato di scrittura quando questa rubrica era appena nata. Ho appena letto la tua opera neonata, Le streghe di Lenzavacche, un libro intenso come sempre è intensa la tua penna. Una storia, anzi almeno due storie che si incontrano nel crocevia del destino e della memoria. Senza rivelazioni eccessive, possiamo raccontare ai lettori di Libreriamo che le streghe sono donne isolate, originali, indipendenti e mal viste in un paese della Sicilia immaginario, ma con connotati di realtà talmente forti che a me è sembrato di esserci stata. C’è un nucleo di verità storica, un fatto di cronaca che ha alimentato la tua immaginazione?

Grazie intanto, carissima Lia, per la costante attenzione con cui guardi al mio percorso letterario e del profondo affetto con cui mi leggi… Sì, c’è un nucleo di verità da cui è partito il romanzo ed è… una legge. Si tratta di un regio decreto del 1925, il numero 653. È una normativa che, in pieno regime fascista, consentiva l’introduzione di soggetti disabili in classi differenziate. Sono partita da lì… mi sono chiesta come mai, in un periodo storico in cui il valore della prestanza fisica e della perfezione era sommamente esaltato, fosse stato disposto che anche i disabili potessero avere accesso all’istruzione. E ho scoperto, così, che la normativa esisteva ma non fu mai applicata. Da lì in poi immaginare un bimbo disabile che nel 1938 provasse ad andare a scuola è stato un passo. Però, mentre scrivevo, questo bimbo mi ha anche fatto capire di essere speciale, di avere in sé la vocazione del narratore e di essere l’ultimo discendente di un gruppo di “streghe”….lo sai come sono i personaggi. Tu gli dai un poco di confidenza, e loro ti trascinano nelle loro vite.

Nelle tue opere spesso ti confronti (e induci chi legge a confrontarsi) con temi molto forti: la diversità, la difficoltà di alcuni spiriti ardenti di adeguarsi alle regole dei benpensanti, il coraggio e la viltà, il valore della solidarietà. E, a proposito della solidarietà, vorrei farti una di quelle domande che di solito non faccio agli autori, poiché mi sembra sacrosanto disinteressarsi il più possibile dell’identità dello scrittore e concentrarsi sulle sue opere. Nel tuo caso, però, la scrittura e l’amore per varie espressioni artistiche sono diventati anche linfa di un volontariato del quale mi sembra importante parlare. Si tratta del progetto che coinvolge i detenuti del carcere di Augusta in corsi di teatro e letteratura e che ha già condotto alla messa in scena del tuo romanzo Effatà. Vogliamo parlarne?

Ne parlo con profonda gioia, cara Lia, perché la mia attività artistica in carcere è il diretto riflesso della mia esperienza narrativa. Nei miei romanzi, infatti, io offro sempre parola agli “ultimi”, sento il bisogno di interpretare costantemente la voce di chi (per motivi storici, fisici, psicologici, sociali) non ha parola o mai la avrebbe all’interno del nostro mondo: un mondo di “potenti”… e il potere, si sa, ha strategie di comunicazione, anzi, si basa proprio sulla comunicazione. E, allora, io scrivo per dare ai “deboli” questa opportunità di espressione, e perché sono convinta che dalla voce degli ultimi affiorino i misteri più grandi dell’esperienza umana. Da questa mia impostazione di fondo nasce il desiderio di “applicare” concretamente questa possibilità espressiva nei contesti in cui vivono “gli ultimi”. Carceri, ma anche ospedali, centri di riabilitazione, ospizi. Là dove vive un “dimenticato” io porto un libro o la penna, e offro loro la possibilità di dire, comunicare e aprire il cuore. Con i detenuti è andata proprio così. E sono diventati a tal punto bravi (dopo la messa in scena del mio precedente romanzo: Effatà) che ho continuato il percorso e li ho coinvolti in un laboratorio di scrittura. Così dalle loro mani, dal loro passato e dalle loro sofferenze è nato un testo teatrale nuovo: Giorno dopo giorno, che abbiamo messo in scena con successo a Natale e in cui recito anche io nei panni della figlia di un detenuto. Lo stiamo replicando e ogni volta è una grande gioia vedere questi uomini che volano oltre le sbarre solo con la forza della letteratura e del teatro, rivedendo il proprio vissuto e trasformando profondamente i propri valori vitali.

Le storie che narri sono tutte incentrate sul femminile e forse non è un caso che Le streghe di Lenzavacche venga pubblicato in prossimità dell’8 marzo. Tu, Simona, che svolgi una professione alla quale in Italia le donne possono accedere soltanto dal 1963, sicuramente hai riflessioni interessanti da fare sull’attuazione in concreto del principio di pari opportunità, anche in senso ampio, se vuoi, non solo per le donne. A che punto del percorso ci troviamo, secondo te?

È un momento storico convulso e doloroso per la donna. E mai come adesso una madre, una compagna, una moglie o una donna sola si scontrano con alcune dinamiche dolorose. A fronte, infatti, di un maggiore impegno nella professione e di tante conquiste, sta la grande solitudine nel dover affrontare (a meno che non si abbia un contesto famigliare di riferimento molto forte) situazioni che portano la donna a vivere con profonda lacerazione il proprio essere impegnata su fronti contrapposti: la femminilità (e quindi la maternità, i disagi fisici legati alle gravidanze, all’allattamento, o anche ai delicati momenti della menopausa e della vita feconda) e la necessità di lavorare, di trovare una propria strada e una propria voce. Non esistono strumenti validi di sostegno, non esiste un meccanismo protettivo o un contesto sociale che indichi come prioritaria l’esigenza di formare una rete di adeguato aiuto a chi svolge due funzioni fondamentali: dare la vita e lavorare per mantenere la famiglia o per la realizzazione della propria vocazione.

Vuoi regalare ai lettori di Libreriamo un’anticipazione sui tuoi progetti letterari?

Con grande piacere, cara Lia! Naturalmente continuo a scrivere altre storie, che spero possano trovare voce in futuro. Ma il progetto che mi sta più a cuore adesso riguarda il carcere e i bambini disabili. Porterò infatti Le streghe di Lenzavacche ai detenuti del carcere di Augusta che lo attendono e affronteremo un laboratorio di lettura che sfocerà, come sempre, in una rappresentazione teatrale. E poi farò parte di una équipe di attori, registi, artisti che creeranno qui a Siracusa un “teatro della diversità”. Faremo recitare i bimbi portatori di handicap, o chiunque, per vari motivi, patisca un limite fisico o di altra natura. Il teatro, come la letteratura, veste infatti i propri interpreti di coraggio, felicità, amore e compassione. Tutti ingredienti che danno accesso alla vera vocazione di ogni essere umano: vivere un’esperienza di profonda condivisione con “l’altro”. Sentirlo in sé, amarlo, riconoscerlo.

Grazie, Simona, per il tuo tempo e le tue risposte.

Grazie a te, carissima Lia, per avermi dato l’opportunità di parlarne.