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LE STREGHE DI LENZAVACCHE – SIMONA LO IACONO

Testata: Retablo di parole
Data: 10 maggio 2016
URL: https://retablodiparole.wordpress.com/2016/05/10/le-streghe-di-lenzavacche-simona-lo-iacono/

Cosa succede quando sacro e profano intrecciano i loro percorsi?

A Lenzavacche, sperduto paesino siciliano, quando una strega e un Santo (soprannome dell’arrotino che girovaga occasionalmente nel paese) uniscono illegittimamente le loro carni, nasce un ossimoroso dispetto: si tratta di Felice, un bimbo deforme e ripudiato dalla comunità bigotta e ignorante (Muoiono presto i figli accussì) e subito additato come punizione di Dio.

Si dà il caso, però, che Felice sia un bimbo dall’animo gentile e brioso, guidato da quella folgorante passione che aveva acceso il fuoco dei genitori: la letteratura. Lo splendore delle parole contenute nei libri, che si esprimono al suo posto e sono il mezzo di comunicazione di una malformazione che non permette un’articolazione normale, alimenta infatti in Felice il desiderio di frequentare la scuola, di soddisfare la sua sete di conoscenza.

Il bambino, pur essendo dunque figlio di un amore clandestino e passionale, anela alla costruzione del proprio posto nel mondo attraverso lo studio, ma è condannato all’infelicità: si è infatti nel 1938, quel vituperabile periodo fascista governato da ferree regole per le quali ogni diversità dev’essere bandita e dove la perfezione del corpo diventa un obbligo morale, per cui la disabilità di Felice diventa un ostacolo invalicabile.

Ovunque si faceva il vuoto, Felice. A qualsiasi orario rincorrevo per te la vita, e la vita fuggiva, si scansava lesta al tuo passaggio, era intuitiva e feroce, la vita, ti fiutava come una bestia pericolosa e – inesorabilmente – ti lasciava indietro. E dire che tu l’amavi pazzamente, che eri come un predestinato a goderla nel suo senso più profondo, nascosto, e senza dolore. Perché mentre loro – i ben accetti alla vita – macchinavano, e si impossessavano, e dominavano, e armeggiavano per tutto il giorno in preda a voglie arcane, misteriose, a equilibri sani o malati, a desideri disperati, maliziosi o innocenti, tu stavi lì quieto e concentrato nello sforzo di un respiro. Ingoiavi il tuo filo d’aria soddisfatto d’aver portato a termine una simile impresa, cibarti di quel poco che ti ci voleva per stare al mondo, e ti costava sforzo, ma con lo sforzo ti immetteva anche in quel cerchio respingente e tuttavia inatteso, al quale continuavi a sorridere indomito, come un eroe negletto, come un trampoliere senza assi, come un innamorato respinto che non intende rinunciare all’amante.

La narrazione si articola, tuttavia, su due piani temporali: oltre alle vicende di Felice, v’è una seconda storia che prende il via nel 1600 e ha come protagoniste un gruppo di streghe, donne che poco avevano a che vedere con le fatture e gli incantesimi. Le cosiddette streghe erano infatti spose abbandonate, donne maltrattate, ragazze violentate, che si affratellarono in un vincolo di solidarietà umana di reciproco sostegno e che formarono una vera e propria comunità, anche di natura letteraria, che fu poi perseguitata dalla Santa Inquisizione.

Questi due piani narrativi naturalmente si incroceranno, ma in maniera inaspettata: a fare da tramite è Alfredo Mancuso, giovane maestro appena arrivato a Lenzavacche, anch’egli come Felice diverso tra gli uguali, la cui voce si esprime in forma epistolare: è un uomo dolente e la malinconia delle sue parole, a tratti devastante, deriva dal mistero di ciò che lo ha preceduto.

È un uomo che ama incoraggiare il talento dei bambini, e che deve scontrarsi con una visione della scuola molto autoritaria: egli infatti è osservato – e minacciato – con disprezzo dal preside della scuola, perché con tenacia rivela ai suoi bambini gli scarti di una Storia ufficiale, prediligendo quella subita dai vinti e non quella magnificata dai vincitori: il suo insegnamento innovativo, figlio di una concezione spirituale del potere dei libri, reca dunque con sé i segni della lotta contro l’oscurantismo fascista.

Coltivo questa idea oltraggiosa che la letteratura possa fungere da corazza, che sia la coltre dei cento nodi, il manto del re nudo.

Almeno fino a quando questa classe esisterà, fingeremo che possa salvarci.

Nell’aria un odore pungente di basilico e passiflora, di camomilla e fiore di ibiscus, di cardamomo e valeriana: la casa di Felice non è quella di fattucchiere distratte, ma di una madre – Rosalba – e di una nonna – Tilde – che tentano in ogni modo di ridurre i problemi di una vita da disabile: sono donne coraggiose e capaci di affrontare una società corrotta da convinzioni forti ma vuote, viziose e ipocrite, figlie di un regime in costruzione e di una mentalità rurale siciliana ancora barbarica.

Le suggestioni della terra siciliana, pur ricca di tradizioni, si scontrano così con una deludente povertà di umanità che costringe le due donne a combattere per ottenere giustizia: per il peccato di una madre non sposata, per la carneficina passata di donne innocenti e, soprattutto, per un bambino la cui disabilità è solo negli occhi di chi lo osserva.

E cominciarono le bisbigliate all’angolo, i segnali da sempre decifrabili dell’emarginazione, gli stessi da secoli, ora qui ora lì, che si tratti di streghe, di adùlteri, di peccaminosi, il vocio è uguale: arriva ‘u mongulu cu sa matri, itavinni, arriva ‘u mostru (arriva il mongoloide con sua madre, andatevene, arriva il mostro).

Questa storia, come accennavo, fa da contraltare alla seconda parte, in cui si dipanano le trame di un documento, un testamento redatto nel XVII secolo con la clausola di essere letto soltanto nel 1950: è qui che emerge la vera storia delle streghe di Lenzavacche, donne tacciate di stregoneria perché amavano la cultura.

Lenzavacche si fa dunque metafora di qualsiasi aggregazione umana all’interno della quale scattano dei meccanismi di emarginazione e le streghe diventano l’archetipo di ogni differenza e della stravaganza contro cui l’uomo erge delle difese, spesso aggressive. L’eresia delle streghe è dunque la cultura di un’umanità ferita.

Attraverso questo cambio di registro narrativo, che mescola sapientemente un vernacolo credibile, vecchie formule tipiche dei verbali dell’epoca ed espressioni latine consuete, è così sottolineata la crudeltà degli abomini della Storia e, contemporaneamente, è offerta attraverso la voce della capostipite delle streghe una ri-lettura diversa della storia, attraverso una nuova, sorprendente, prospettiva.

Non sono temi nuovi nella narrativa di Simona Lo Iacono, magistrato e scrittrice giunta ormai alla sua quarta fatica letteraria, attualmente candidata al Premio Strega: emerge tra le sue parole una forte concezione della letteratura, intesa come percorso di senso e di significato, che permette agli ultimi (che si tratti di minorità fisica o di disuguaglianza sociale) di mutare verso una sorte positiva e di superare i propri limiti.

Il racconto di Simona Lo Iacono si impone perciò con naturale potenza narrativa, e risulta fortemente sensoriale nella descrizione di una Sicilia arsa e crudele, dagli echi morantiani e densi di evocazioni di un particolare realismo magico, ai limiti col fiabesco. Una narrazione che asseconda i piani temporali e quelli narrativi – per non parlare di quelli linguistici – per ritrovare il senso perduto di una narrativa con una morale senza moralismi.