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La lotta dei gay musulmani contro l’oscurantismo del Corano

Autore: Edoardo Rialti
Testata: Il Foglio
Data: 15 giugno 2016

Una spiaggia delle Hawaii, fasciata dal viola del tramonto e dal mormorio delle onde. Un gruppetto di amici e conoscenti prende parte a una cerimonia nuziale. Sorrisi, risate, qualche lacrima e “Allelujah” di Cohen alla chitarra. Parrebbe un matrimonio come tanti, se a unirsi non fossero due donne, ma anche questo suscita sempre meno scalpore. A colpire davvero è che a concludere il matrimonio della scrittrice Irshad Manji, autrice di “The trouble with Islam”, sia la madre stessa della festeggiata, e che lo faccia pronunciando una benedizione e citando il Corano. Ieri, reagendo alla strage di Orlando, Manji ha postato a sua volta sulla sua pagina Facebook una citazione dal Corano (“Dio ha soffiato la vita in una singola anima, per poi crearne la sposa”) commentandola così: “Di che genere sono anima e sposa? Il Corano non lo dice. Se denunciate l’islamofobia, vi sfido a denunciare anche l’omofobia”.

Il mondo musulmano non ha solo i suoi Voltaire, come Salman Rushdie, Ayaan Hirsi Ali o Azar Nafisi, ha anche i suoi Oscar Wilde. Spesso le due vocazioni si intrecciano, perché criticare i precetti su sesso e famiglia vuol dire sempre rimettere in discussione tutto. In 1.300 anni di storia, si inciampa nelle generalizzazioni, ed è vero che la passione omoerotica ha goduto di prestigio anche letterario nell’età d’oro delle dinastie omayyade e selgiuchide benché si sia trattato per lo più del privilegio accordato al maschio adulto verso fanciulle e fanciulli più giovani. L’uomo esclusivamente omosessuale resta un’aberrazione. Per non parlare della donna. La progressiva sensibilità accordata verso una dimensione paritaria dell’eros hanno sempre più spostato la discussione sulla natura dell’attrazione omosessuale in sé. Ed è appunto su questa dimensione radicale della persona che la scure della riprovazione familiare, sociale e religiosa cala con più ferocia, in una miscela di tribalismo e machismo. Tanti artisti – magari eterosessuali – hanno raccontato gli strazi di chi ha dovuto nascondersi per tutta la vita, da Nagib Mahfuz a Saleem Haddad, da registi come Mohamed Chouikh ad Abelhak Serhane.

Negli ultimi anni, altri hanno fatto sentire la propria voce, spesso in terribile isolamento. Scott Kugle, gay convertito al sufismo, autore di “Homosexuality in Islam” ha puntato l’indice su quegli intellettuali (come Tariq Ramadan) che vengono presentati come moderati e che invece costituiscono – per dirla con Sam Harris – la cortina fumogena degli integralisti: “Non sono progressisti. Okay, sono intellettuali, glielo concedo. Fanno molto di buono, ma non tanto quanto potrebbero, perchè sono preoccupati del loro status sociale e da chi li segue. Le persone con più potere sono quelle che hanno maggiormente da perdere. Ecco perché non ripongo molta speranza nei grandi ulema. Saranno gli ultimi a cambiare”. La stessa Irshad Manji è una delle voci che chiede a gran voce una radicale riforma non letteralista dell’islam, convinta che ciò possa avvenire senza rinnegare una visione religiose dell’esistenza: “Il Corano dice che tutto ciò che Dio ha creato è ‘eccellente’ e che niente creato da Dio è ‘vano’. Se il Creatore non voleva creare me, una lesbica, allora perché non ha creato qualcun altro al mio posto?”. Ci sono regole date per scontate che possono e devono essere ridiscusse, come il velo: “Se le donne hanno una tale dignità, perché grava su di loro il fardello di coprirsi, così da proteggersi dagli sguardi degli uomini? Perché gli uomini non possono accettare di controllare i propri istinti o comportamenti animali? E’ una domanda a cui non ho ancora ricevuto una risposta soddisfacente da una donna musulmana. E continuerò a farla”. Si tratta di una battaglia che è “specialmente a disposizione dei musulmani in occidente, perché è qui che godiamo delle preziose libertà di pensare, esprimerci, sfidare e essere sfidati senza la paura di una ritorsione statale. In questo senso, la riforma islamica deve iniziare in occidente”.