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Autore: Giorgio Pisanu
Testata: L'Unione Sarda
Data: 9 marzo 2004

Lo scenario è truce, il solito Nordest: ricco, sanguinario, maialesco, bossiano. Storia raggelante e di routine, cronaca mortuaria dalla periferia opulenta dove non mancano volontarie alcolizzate, pretini invadenti, giornalisti banali, sbirri corrotti, sesso a piacere. E quattro morti: due in presa diretta durante la fuga dopo una rapina, altri due per effetto secondario. Morale: contrariamente a quanto finora annunciato ribadito gridato e perfino salmodiato sia nelle pubbliche piazze che sotto le cupole di santa romana chiesa, la miglior vendetta è la vendetta. Privata o di Stato, non ha importanza. Purché sia eterna. E lasci dietro di sè il deserto, un cumulo umano di macerie che è poi la nostra vita quotidiana.

Questo il filo sottile che avvolge l'ultimo romanzo di Massimo Carlotto (L'oscura immensità della morte, edizioni eo), sicuramente tra le firme più solide del noir, non solo italiano. La vicenda: due balordi strafatti coca alleggeriscono un gioielliere. Sembra una rapinetta facile ma all'improvviso le cose si complicano e bisogna mettere le ali ai piedi. Madre e figlio, figlio di otto anni, si ritrovano ad essere ostaggi dei banditi in cerca di salvezza. Il bimbo viene freddato con un colpo di pistola che gli attraversa collo e spalla, la mamma centrata in pancia. Silvano Contin, che in quel momento girava in Mercedes e campava alla grande vendendo vini di qualità, resta improvvisamente solo: la vita, tempo un minuto, è riuscita a scarnificarlo, a farne (almeno in apparenza) lo spettro di quello che era un borghese piccolo piccolo e sicuro d'essere felice. Chiude in un garage i ricordi (vestiti e giocattoli), cambia casa per sfuggire alla pietà dei vicini e tiene sotto gli occhi soltanto due fotografie di Clara ed Enrico. Mica immagini felici. Sceglie di conservare i ritrattini in bianco e nero scattati a Medicina legale, sul tavolo dell'autopsia. Ossia cadaveri saccheggiati dal bisturi dell'anatomo patologo e rimessi insieme alla svelta.

E i banditi? Uno se la sfanga, l'altro paga con l'ergastolo però dopo quindici anni di reclusione deve chiedere aiuto: ha bisogno della grazia perché un tumore lo sta divorando e vorrebbe morire da uomo libero. Ma la grazia, per arrivare, ha necessità del consenso dei familiari delle vittime. E Silvano Contin, dopo un breve incontro in carcere con lui, dice no. Non perdona. Un varco per rimettere il rapinatore in libertà comunque c'è: è una soluzione che salva la faccia di tutto e di tutti. Dello Stato che, dopo aver comminato una pena, non ha la forza di decidere da solo se graziare un detenuto; del povero Contin che non può e non vuole dimenticare. A questo punto il gioco si complica e i personaggi, bottino al seguito, seguiranno strade diverse, fuori copione.

Il libro di Carlotto, e siamo già a pagina 70, comincia qui. E vola. Sequenze gelide da autoscatto, a mitraglia, neanche una riga per raccontare dei drammi interiori, del turbinio che scuote casi e coscienze. C'è delitto e anche castigo ma non cercate rimorso e pentimento: il Raskolnikov di Carlotto non ha niente di Dostoevskij. E' un balordo da quattro soldi, misero e miserabile, che prende semplicemente atto d'aver sbagliato.

Prosa secca, glaciale come l'obiettivo del fotografo davanti alla perizia necroscopica. Colpo su colpo, in un rimescolamento di carte dove nessuno si comporta come dovrebbe. Ispirato dalla moglie, che gli appare in sogno, Contin segue un itinerario imprevedibile, lavora a un progetto rischioso e difficile. Nel frattempo, il malato terminale si prepara ai fuochi d'artificio: donne e champagne fino all'ultimo respiro. Perché c'è morte e morte. Il complice, che s'è sposato una sciampista, aspetta di consegnargli la metà della sua parte e intanto si gode il benessere conquistato col sangue di due innocenti.

Fosse una storia politicamente corretta, finirebbe tutto in gloria, cattivi da una parte e onesti dall'altra. Fosse una storia politicamente corretta, ci sarebbe anche la conversione di un assassino che diventa santo. Invece no: affiora, in tutta la sua pochezza, il lato donabbondiesco della giustizia di fronte al dilemma d'una richiesta di grazia (tema di scottante attualità). Dietro il sipario del ruolo pubblico, si muove la mediocrità. Il commissario Valiani, per esempio, è uno che pedala su scarpe da quaranta euro e non ha nulla dei suoi colleghi più famosi, nemmeno un sussulto di furore, di indignazione. L'unico personaggio che non esce a pezzi è una vecchia battona ormai in disarmo.

Pur mettendo il noir al servizio del dibattito più attuale della società civile, Carlotto non appesantisce mai il ritmo di un racconto cucito, attimo dopo attimo, sull'effetto-sorpresa, su quello che il lettore non si aspetta e che in fondo è invece lo squallido palcoscenico di tutti i giorni. L'oscura immensità della morte si presta ad essere una strepitosa fiction televisiva, una riflessione collettiva su quello che siamo e quello che vorremmo essere: soprattutto su quello che potremmo diventare stuzzicati dai demoni del desiderio, della tentazione, del rancore che si fa vendetta. Pazienza se poi tutto questo finisce per essere sonno della ragione: la vita è anche buio.