Chi ha paura di Elena Ferrante? Cosa spinge non pochi giurati dello Strega e non pochi giornalisti a reagire in modo scomposto verso la candidatura della scrittrice al Premio? Per quale ragione i suoi libri vengono pressoché ignorati dal dibattito universitario italiano, mentre in Nord America sono al centro di convegni, seminari, pubblicazioni autorevoli? Eppure, la quadrilogia dell’Amica geniale è una delle opere più interessanti di questi anni ed ha riscosso un enorme successo di pubblico in italia non meno che negli Stati Uniti e nei paesi di lingua inglese. La formula con cui all’estero vengono comunemente definiti i quattro romanzi, Neapolitan Novels, valorizza lo scenario privilegiato della lunga vicenda, Napoli, e pone la questione della nostra identità nazionale, di una Italia vista da lontano: ma anche questo aspetto, oggi così vitale per noi, è liquidato frettolosamente come esotismo dai detrattori della scrittrice. Mentre nella letteratura anglofona la modernità si è da subito incarnata nel punto di vista femminile, che ha rappresentato al tempo stesso una particolarità di genere (la metà del genere umano!) e un’universalità estetica, il sistema massmediale italiano e la nostra università esprimono invece tuttora una resistenza pregiudiziale verso le scrittrici.
La lunga premessa serve a chiarire la prospettiva da cui guardare all’Amica geniale. Ferrante – una scrittrice raffinata, incredibilmente sintetica nei suoi precedenti tre romanzi – ha avuto con i Neapolitan Novels il coraggio e l’intelligenza creativa – e questa fu anche la strategia di Elsa Morante – di immettere i materiali della letteratura di consumo (quei «fondali bassi» di cui parla nella Frantumaglia) in una forma complessa, non residuale, ma al contrario sintonizzata con un bisogno antropologico dei nostri tempi. La Ferrante fever – il bisogno inesausto nei lettori di consumare i quattro volumi – rientra in un più generale bisogno di storytelling, lo stesso da cui sono scaturite molte notevoli serie televisive: una sorta di collettivo sentimento del tempo in cui messa in forma e dilatazione della cronologia, ordine e caos, linearità e geologia cronologica, si intrecciano e confliggono. Ferrante ha creato così una storia avvincente, un intreccio corposo ricco di colpi di scena, ma proprio all’opposto di quanto accade nel feuilleton o nel thriller, il coinvolgimento del lettore è alimentato per poi essere frustrato. La serialità del genere è sabotata: i finali non chiudono (e anzi addirittura anticipano lo sviluppo della vicenda), i colpevoli non si trovano, le sparizioni non si spiegano.
L’Amica geniale ha come protagoniste due amiche, Lila ed Elena, e racconta l’evoluzione delle loro vite e del loro legame dall’infanzia nella misera periferia di Napoli alla vecchiaia, tra il 1950 e i nostri giorni. L’amicizia, esperienza fondativa per tutte le donne e tuttavia finora poco elaborata nell’immaginario universale, emerge nel racconto in modo spiazzante come esperienza della differenza: altra rispetto all’ethos classico del legame liberamente stabilito tra pari, perché quel tipo di signoria sulla propria vita è un privilegio maschile, e ha storicamente presupposto, come complemento inevitabile, il dominio sul femminile. Ferrante racconta invece l’amalgama terribile di invidia e riconoscimento elettivo da cui l’amicizia tra due donne, due dominate in cerca della loro emancipazione, inevitabilmente è costituita. Questo sentimento di perdita e accrescimento è prima di tutto una strategia formale particolarmente riuscita: una narrazione polifonica, duale, nella quale la voce narrante di Elena fa continuamente riferimento a quella dell’amica. L’una si fa al tempo stesso garante e rivale dell’esistenza dell’altra, imponendo una sorta di simbiosi agonistica – a volte euforica, a volte angosciosa – nella quale però vive e impone il suo diritto a vivere sia chi racconta sia chi si fa raccontare.