È da poco uscito per edizioni e/o il volume Elena Ferrante. Parole chiave firmato da Tiziana De Rogatis, senza dubbio la persona ideale per frantumare e dissezionare l’opera dell’autrice più sfuggente del nuovo millennio: napoletana, docente di letterature comparate e studiosa di costruzione del femminile, De Rogatis si occupa da anni di Elena Ferrante e le ha dedicato numerosi saggi e conferenze.
Chi l’ha letta lo sa: sistematizzare Ferrante sembra, oltre che alto tradimento e operazione per sua stessa natura destinata a fallire (si può ridurre l’amore a equazione? Sì, ma non è che una parte della faccenda e neanche la più interessante), un’impresa mastodontica, potenzialmente il lavoro di una vita. È una sensazione che vale almeno per la tetralogia che l’ha fatta esplodere e che raduna attorno al racconto dell’amicizia tra Lila ed Elena una così impressionante quantità di esperienze, temi, registri e generi da farsi totale, come la biblioteca di Borges. Come mettere ordine in una simile Babele? Attaccandola da un solo lato per volta, scegliendo quindi la prospettiva, oppure adottando il metodo di De Rogatis e indicando alcuni macroargomenti, strade di un labirinto in cui chi legge potrà camminare a suo piacimento, indugiando su una e affrettando il passo su un’altra. Sono queste le parole chiave di Elena Ferrante, X rosse nella mappa di un tesoro che ci è già noto.
È proprio nell’onnicomprensività che l’autrice individua uno dei punti di forza della costruzione ferrantiana: la tetralogia è, contemporaneamente, romanzo di formazione, romanzo storico, romanzo politico, feuilleton. Un «ipergenere» (p.42) che li comprende eppure li disattende tutti, negando la teleologia al percorso delle due protagoniste, evitando che le vicende storiche si facciano troppo ingombranti, sfiorando il politico solo quando arricchisce il personale e sabotando i meccanismi del romanzo a puntate con le numerose sottotrame non risolte o i misteri ingigantiti e poi sgonfiati (se non addirittura mai svelati). È la struttura che si adegua alla sostanza e lo fa anche incorporando forme di racconto raffinate come la metanarrazione accanto a quelle solitamente considerate più basse come la sceneggiata napoletana: Ferrante restituisce così, in un equilibrio che ha del miracoloso, la molteplicità delle vite che racconta ma anche la loro inevitabile gerarchia. La tetralogia è attraversata da una continua tensione fra alto e basso che si incarna in dualismi inconciliabili: la città contro il rione, l’istruzione contro l’ignoranza (e più avanti il sapere tecnico contro quello umanistico), l’italiano contro il dialetto, la ricchezza contro la povertà, il nord contro il sud, i borghesi contro gli operai. Tutti i primi termini di queste coppie promettono di essere i migliori strumenti per il superamento di una condizione esistenziale insoddisfacente, ma non è detto che ci riescano. Si configura piuttosto, in molti degli archi narrati, una frustrata oscillazione tra un polo e l’altro, accompagnata (soprattutto per Elena) dalla continua scoperta che ciò che si crede ideale è piuttosto idealizzato, e che il prezzo da pagare per ottenerlo è l’esclusione dal punto e dalle relazioni di partenza, d’improvviso sconosciuti e ostili.
Anche il maschile e il femminile sono in perpetuo conflitto, ed è un conflitto che si esprime in violenza e controllo. Il Don Achille facilitatore involontario dell’amicizia tra le piccole Lila e Lenù è solo il primo di una serie di orchi, di cui è archetipo e prefigurazione. Le due protagoniste, ma anche le loro madri e le loro amiche, sono limitate in ogni aspetto della loro vita oltre che del loro stesso pensiero da una collezione di uomini violenti o manipolatori, figli di una vecchia mentalità che conosce solo sottomissione e ruoli cristallizzati o, negli anni del femminismo, troppo innamorati della propria immagine di progressisti alleati nelle lotte per riconoscere alle donne che hanno accanto una soggettività. Pur evidenziando una cornice di violenza, Ferrante rifugge però il patetico e ama le sue donne abbastanza da renderle capaci di «elaborare forme di resistenza creativa contro questo dominio» (p.17) e ambasciatrici di «un’etica femminile della sopravvivenza» (p.18) che può anche culminare nella sparizione, evento che di certo non sancisce la sconfitta definitiva ma piuttosto il rovesciamento di un tavolo di cui non si accettano le regole.
Non solo: il nucleo stesso della storia, cioè l’amicizia fra due donne, smagnetizza da subito il polo maschile, degradandolo alla funzione vicaria di strumento oppure ostacolo oppure, semplicemente, contorno. Così Ferrante rifiuta secoli di teoria e pratica dell’amicizia saldamente controllate da uomini e mette al centro l’esperienza femminile, nelle sue complessità e contraddizioni, tutt’altro che angelicata ma caratterizzata dal tentativo, consapevole o no, di svincolarsi da un dominio che è a monte di tipo coloniale. È Elena a riconoscere che il proprio «spazio mentale e linguistico» (p.202) è usurpato, tanto che finirà a scrivere un saggio sulla violenza simbolica dell’uomo che inventa la donna, e inventandola la subordina nel pensiero, nel linguaggio e nelle pratiche. Vale la pena notare che gli ambienti marxisti non risultano esenti da queste dinamiche, ed è Lila ad accorgersene quando denuncia gli abusi padronali a cui sono sottoposte le operaie e non incontra la sperata solidarietà di Pasquale ed Enzo, troppo concentrati sulla prospettiva di classe da un lato e troppo abituati a pensare all’abuso sulle donne come a una questione privata dall’altro. E non è certo un caso che sia Elena che Lila passino per Carla Lonzi: la prima leggendo i suoi testi e ammirandola per il rovesciamento completo della tradizione culturale maschile (è proprio così che Elena capisce con dolore di aver subìto i libri che dovevano emanciparla), la seconda nella pratica dell’evasione dal matrimonio patriarcale e nel continuo sottrarsi, negarsi, finalmente sparire.
Difficile stabilire se la ragione dello strabiliante successo di Elena Ferrante stia nell’immediato e istintivo riconoscimento dell’unicità dello scambio tra le due protagoniste, o se piuttosto vada ricercato nella coesistenza perfettamente armonica di voci e registri, nell’esuberanza della lingua e nel florilegio di neologismi (come smarginatura e frantumaglia), nell’esattezza con cui definisce le categorie dell’alienazione o dell’inadeguatezza, nella fortissima impressione di verità restituita dai suoi soggetti quando si raccontano o nelle numerose altre tracce individuate da Tiziana De Rogatis. Qualunque cosa sia, non sembra frutto di calcolo. Al contrario Ferrante ostenta indifferenza nei confronti di tutto ciò che potrebbe imbonire il lettore, rifiuta i meccanismi narrativi facili e non crea personaggi di cui innamorarsi (o se sì, fa in modo che poi si finisca a odiarli). Per questo, sebbene sia avvolta nel mistero, può vantare una schiettezza e un’onestà cristalline.