Una famiglia di italiani ebrei costretti a fuggire dalla Libia, perseguitati alla fine degli anni Sessanta. Il ritorno a Tripoli di Micol, non più bambina, sulle tracce del passato e di una sorella perduta. “Qual è la via del vento” di Daniela Dawan è una storia sorprendente e purtroppo assai attuale
Un’altra storia di ebrei? Sì, una bellezza magnifica. Ed ebrei di dove? Russia o America? Italia o Europa dell’Est? Brasile (Wrobel) o Cina (Wagenstein)? No, di Libia. La letteratura scova storie misconosciute, o non abbastanza valorizzate, che la Storia ostacola nel loro perpetuarsi, e le tira fuori dal guado della memoria, perché hanno cose importanti da dirci. Daniela Dawan, a lungo avvocato dall’esistenza cosmopolita e adesso consigliere di Cassazione, teneva celata nel proprio cuore una vicenda verosimilmente autobiografica, non più prigioniera dei pensieri, ma libera di finire sulle pagine del suo nuovo romanzo, il secondo dopo il debutto del 2010 con Marsilio, Non ditemi che col tempo si dimentica.
L’aiuto di un amico arabo
Una sorella mai conosciuta e perduta troppo presto, una fuga repentina dalla Libia, dove il ritorno per Micol Cohen si consuma da adulta, molti anni dopo. Una parabola di vita raccolta in un romanzo che incalza, Qual è la via del vento (239 pagine, 17 euro), scritta da Daniela Dawan, pubblicato dalle edizioni e/o e “benedetto” in quarta di copertina da una grandissima scrittrice della stessa squadra, Lia Levi. Una saga senza inutili lungaggini, senza tracce di retorica, anche se il dolore, inevitabilmente, è una componente essenziale di entrambe le parti del libro, quella della rocambolesca fuga, nel 1967, e quella del ritorno, nel 2004. Le vicende familiari e quelle storiche sono sapientemente intrecciate. La guerra dei sei giorni, che coinvolge Israele, Egitto, Siria e Giordania si trasforma in una persecuzione con effetti immediati per la comunità ebraica in Libia. Non fa eccezione la famiglia Cohen, Ruben e Virginia, con la figlioletta Micol, in grande pericolo prima di riuscire – grazie a un amico arabo, Ali, abile a restare a galla dalla cerchia politica di re Idris a quella del colonnello Gheddafi – a ottenere i visti e a prendere un volo per l’Italia.
A distanza di oltre trent’anni
Emerge la storia di un matrimonio contrastato, di sposi figli di due mondi diversi, di una bimba che assiste alle gioie e ai dolori, che li vive sulla propria pelle e che, a un certo punto della vita, va a riprenderseli. Radici e “buchi neri” saranno chiari solo a distanza di più di trent’anni, in una Libia che non è quella dell’ondata antiebraica, ma è sotto il giogo di Gheddafi che, sembrerebbe, vuol restituire i beni confiscati agli ebrei fuggiti da Tripoli e finiti in Italia, risarcirli dopo tanti anni. Il romanzo di Dawan vive di una fitta rete di particolari, di ricordi intensi, del racconto del tempo che passa e ha cambiato il volto della capitale libica, di inquietanti discriminazioni che, ciclicamente, tornano d’attualità, di una sensibilità, quella dell’autrice, fuori dal comune.