“Le case non si vedono, e neppure gli alberi del lungomare; i lampioni a metà carreggiata a stento illuminano di una luce sfocata e giallastra l’asfalto. La camionetta militare con dentro i Cohen arriva a Città Giardino, il quartiere residenziale tutto ville e ambasciate. La furia che ha messo a ferro e fuoco gran parte di Tripoli non si è spinta fin lì, le strade e i marciapiedi deserti non ne portano traccia. Ecco sulla destra, nascosta tra platani e palme, la villa del primo ministro dalle cui finestre filtra un chiarore soffuso. Soltanto sei mesi prima, lì dentro, al cospetto di autorevoli esponenti del governo, Ruben aveva firmato il contratto che gli attribuiva l’appalto per l’installazione della rete telefonica in Cirenaica. Dopo anni di duro lavoro ce l’aveva fatta, finalmente. Quel giorno aveva incassato congratulazioni, strette di mano, amichevoli pacche sulle spalle. Se bussasse adesso non troverebbe accoglienza, lo sa bene. Lo sapeva anche allora, quando per le sue capacità imprenditoriali era adulato da notabili e funzionari importanti. I sorrisi e i convenevoli di cui lo gratificavano erano soltanto di circostanza e lui ne approfittava. Gli era mai importato, in fondo, che nutrissero per lui sentimenti autentici? Si erano serviti di lui, come lui di loro. D’un tratto compare il lungo muro perimetrale bianco della scuola Niccolò Tommaseo. Al vederlo Virginia ha un sussulto. La sua bimba, anche se vicinissima, è irraggiungibile: diverse grosse catene cingono le grate del grande cancello verde di ferro. Dietro, il vialetto che Micol percorre di malavoglia ogni mattina è buio”.
Quante sono, le pagine della storia, che saltiamo, ignoriamo, non troviamo scritte. Quante tragedie conosciamo, quante sfuggono via, incastrate eppure invisibili, nell’indifferenza delle ragioni e opportunità politiche. Tutto è politica, anche il peso di una guerra o di una tensione, di una crisi, di uno smarrimento umano.
La Libia è stata colonia italiana, Tripoli ha parlato la nostra lingua, le sue strade avevano i nomi dei nostri luoghi, dei nostri Grandi del passato. Poi le cose sono cambiate, gli eventi hanno modificato il peso italiano, ma sono altre le migrazioni e le forme di violazione dei diritti umani che catturano l’attenzione dei nostri media. Quasi nessuno ricorda quello che hanno subito gli ebrei durante la Guerra dei sei giorni del giugno 1967 o il viaggio obbligato che molti nostri concittadini, da generazioni stabiliti nel nord Africa, hanno dovuto intraprendere dopo essere stati espropriati di ogni bene e proprietà.
Daniela Dawan è nata a Tripoli. Lì è vissuta per i primi dieci anni della sua vita. A causa degli eventi scatenati dall’odio degli arabi contro gli ebrei è stata costretta a fuggire in Italia con la sua famiglia e, anche se il suo lavoro è un altro (già avvocato penalista è ora Consigliere della Suprema Corte di cassazione), in questo romanzo, attraverso la storia della famiglia Cohen, della fuga di Ruben e Virginia e del ritorno, dopo anni e anni, della loro figlia Micol nella terra delle radici e dei ricordi e del dolore, ci consegna un dono prezioso: pagine di memoria nostra, di un passato che è da sempre scritto in caratteri troppo piccoli per poterne rivendicare il diritto ad una Voce chiara, ferma.
L’amicizia tra l’ebreo Ruben e l’arabo Alì Fiallah ammorbidisce un contrasto che rende il senso di una umanità che ha resistito alle contrapposizioni, all’odio. La narrazione di un lutto privato, la prematura scomparsa della primogenita dei Cohen, Leah, e del legame tra sorelle che supera la barriera della morte, riempie quegli spazi bianchi di cui ogni Storia è piena ma silenziosa: la vita quotidiana dei ‘numeri’, degli uomini e delle donne (‘civili’, li chiamano i testi scolastici e i saggi di settore), delle loro esistenze, delle loro lotte, sconfitte, e vittorie, personali.
Leggere il libro della Dawan è un tributo, un abbraccio, un ritorno, un ricongiungimento.