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Autore: Sara Ventroni
Testata: Il Foglio
Data: 25 febbraio 2006

Forte del potere che le deriva dal rango, la contessa Stefana manda al rogo la giovane serva Caterina, con l’accusa di essere una strega. Questa è la premessa, tutto deve ancora accadere. Come nella tragedia classica, l’evento scatenante è già avvenuto, è un antefatto che viene evocato perché da lì deve scaturire il destino del protagonista.

Il riferimento al racconto “La strega e il capitano” di Sciascia, che terminava proprio con l’ingiusto rogo di una serva di nome Caterina, funziona qui come un innesco, come la miccia di accensione: la Ranno inizia dove Sciascia aveva finito, seguendo un altro destino, un altro dramma.

Donna Stefana non è un’ingenua, sa bene che la ragazza non era una strega: l’ha fatta bruciare per gelosia, eppure cerca con ogni mezzo di guadagnare un qualche riconoscimento da santa. Ma sono proprio l’abuso di potere e l’eccesso di tracotanza ad attirarle lo stesso marchio d’infamia: davanti alla furia popolare che la vuole impalata al rogo e minaccia la sicurezza generale, nessuno può più salvarla, nemmeno la casta dei potenti di cui lei stessa fa parte. Durante la lunga auto-reclusione che precede l’esecuzione, donna Stefana avrà modo, però, di mettere in dubbio i dogmi di fede e di potere, tanto che alla morte non andrà più la perfida e dispotica Stefana, ma una donna diversa. Potrebbe essere, questa, la storia dove si narra del rovesciamento delle parti che conduce alla redenzione; ma non è tutto qui.

Con un linguaggio che sbozza la pagina come un bassorilievo, questo è innanzitutto un grande affresco dove vibrano come creature palpitanti i personaggi e le loro contraddizioni (il giudice Corselli, Fra’ Lorenzo, l’inquisitore, la serva Menegota, lo stalliere Musà) su uno sfondo nutrito di soprusi e superstizione. In filigrana c’è quel Seicento che ha perso la baldanza del Rinascimento e non ha ancora acceso la ragione dell’Illuminismo; il secolo dove vengono, però, instillati i germi di quel dubbio che assilla donna Stefana, chiusa nella sua torre: “Fosse ’l monno ‘n nulla, picciol grano entro l’infinito senza Dio?”. E’ Galileo che la fa parlare così. Sono i libri proibiti dalla Chiesa, che il marito teneva nascosti nel punto più alto e assolato del palazzo, a darle conforto in attesa che il destino si compia.

Come Sciascia, allora, l’autrice fa tesoro di quel sostrato di scetticismo greco che segnò per sempre la Sicilia. L’azione drammatica non si scioglie nella redenzione dell’anima, ma nella conquista di quel “dubbio della ragione” che rimette il destino nelle mani dell’uomo e riconduce i mostri all’ignoranza da cui scaturirono.