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Viola di talento

Autore: Giovanni Dozzini
Testata: Europa
Data: 19 gennaio 2011

Leeds è una città fredda, cupa, terribile. Una città dove l'inverno forse un giorno lontano è pure cominciato, ma di sicuro non ha alcuna intenzione di finire mai. Christopher Road, poi. Non proprio la fine del mondo, ma quasi. Eppure c'è chi ci vive, da queste parti, chi ci vive e chi ci muore e chi ci si smarrisce completamente, fino in fondo. Camelia, per esempio, è nata e cresciuta in Italia, ma adesso ha casa qui. Con sua madre, non con suo padre. Non più con suo padre. È per questo che il tempo s'è inceppato, e lei lo sa. Come intimamente sa che non riuscirà a farsene una ragione. Eppure, mentre tutto intorno a lei non smette di muoversi, magari lento e sporco e brutto ma senza mai fermarsi, lei ci prova. Così va avanti, così si aggrappa alle parole, al gioco dei significati e dei significanti, così, addirittura, si innamora. Non come sua madre, che si arrende muta e inselvatichita lasciandosi appassire nell'odio e nella mancanza. Camelia non appassisce, Camelia ci prova, anche se tutto appare sbagliato, quel che fa e quel che le succede. A poco più di vent'anni è facile non capirci più niente. A poco più di vent'anni basta un attimo. Il fatto è che in realtà Camelia non esiste. Christopher Road sì, e ovviamente pure Leeds. Però forse non sono così male, questi posti. Semplicemente, certi romanzi hanno bisogno di posti così. Freddi, cupi, terribili. Certi romanzi come Settanta acrilico trenta lana, che da Leeds si smuove solo per andare a finire a Scarborough o Knaresborough, nel mare gelido o in cima a castelli antichi – un pezzo di Yorkshire, la remota ballata della fiera di Scarborough sussurrata da Paul Simon e Art Garfunkel, immagini sommerse che vengono pian piano a galla, già. Esce oggi, questo romanzo, la ragazza che l'ha scritto l'ha finito di scrivere due anni fa, quando di anni ne aveva ventuno, e si chiama Viola Di Grado. In Italia gli scrittori sono giovani anche quando metà dei capelli che si ritrovano in testa sono bianchi, ma lei sì che è giovane davvero. Anche solo per questo il suo esordio, pubblicato da e/o, meriterebbe attenzione. Non la stessa che s'è dedicata, forse un po' a sproposito, a una sua quasi coetanea come Silvia Avallone, però, intendiamoci. Viola è tutta diversa. E non solo perché qui si parla di provincia inglese e di ideogrammi cinesi, non perché si inventa un microcosmo malato in cui i protagonisti scendono fin troppo a patti con gli impeti dei propri corpi e delle proprie psiche, tra un richiamo al forno suicidario di Sylvia Plath e una teorizzazione sotterranea delle incomunicabilità degli uomini. Il romanzo di Viola Di Grado è interamente costruito sulla lingua. Anzi, su un'idea di lingua. «Volevo usare le parole in modo che chi le leggesse avesse una sensazione di straniamento, di vertigine», dice lei. E scordatevi il quadretto preconfezionato di una ragazzina che si mette a scrivere di getto quello che le passa per la testa o le viene dalle viscere, è vero che il suo romanzo Viola l'ha mollato e ripreso chissà quante volte, ma sempre con la consapevolezza di chi è avvezza da sempre a trattare i libri col rispetto che è loro dovuto. Perché avere per padre un italianista insigne – Antonio Di Grado, tra i massimi studiosi di Sciascia e De Roberto – e per madre una scrittrice – Elvira Seminara, il suo L'indecenza è stato pubblicato un paio d'anni fa da Mondadori – rende quasi naturale approcciarsi alla scrittura nel modo in cui l'ha fatto lei. «Da perfezionista», quindi. Ma se la sua lingua è frutto di uno sforzo consapevole e meditato, non perde niente della sfrontatezza dei vent'anni. Altro che editing selvaggi da corazzata editoriale, altro che appiattimento da scuola di scrittura creativa, quello che potrete leggere è in tutto e per tutto il portato del suo innegabile talento. «Sono stata fortunata», ammette, ma la verità è che chi doveva occuparsi di lei, in e/o, ha capito che togliere di mezzo gli spigoli e le piccole visioni di Viola avrebbe significato addomesticare un'opera che non aveva alcun bisogno di essere addomesticata. D'altronde dicono che la prima ad innamorarsi del romanzo, in casa Ferri, sia stata la giovane figlia degli editori. E se un romanzo così sa parlare a chi ha l'età di chi l'ha scritto – Eva Ferri e Viola Di Grado sono praticamente coetanee – allora vuol dire che funziona. Adesso che il sogno di Viola bambina, scrivere ed essere riconosciuta come scrittrice a tutti gli effetti, è diventato realtà, chissà come cambieranno le cose. «È strano », confida lei. Che dopo la laurea in lingue orientali a Torino e l'Erasmus a Leeds («città che in realtà trovo molto bella, elegante; è solo che si prestava ad essere manipolata per la storia di Viola») si sta specializzando in filosofia cinese a Londra. «Ora che il libro esce cambia tutto. Chi non scrive a volte tende a dirti che pubblicare non conta, che basta scrivere per se stessi. È falso. Chi scrive romanzi vuole comunicare, ha bisogno di lettori». Strano anche perché mentre Settanta acrilico trenta lana esce in Italia lei se ne sta lassù, prigioniera delle sue lezioni di cinese. «Buffo davvero. I miei amici di qua non capiscono l'italiano ma lo comprano lo stesso». Magari tra non molto potranno leggerselo anche in inglese, considerando il canale privilegiato che ha la e/o con la sua Europa Editions. Presto per dirlo, ovvio. Eppure un romanzo così ha tutto per essere apprezzato anche fuori dall'Italia: l'ambientazione inglese, le tante tracce di Cina, lo stile non convenzionale. Intanto vediamo come reagiranno mercato e lettori a casa nostra. Ma sul fatto che di Viola Di Grado ci abitueremo presto a sentire parlare non ci sono dubbi.