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È la Bibbia a scatenare le guerre dei poveri

Autore: Giuseppe Cesaro
Testata: Il Fatto Quotidiano
Data: 25 ottobre 2019

“Le parole sono pietre”, scriveva Carlo Levi. Drammaticamente vero. E dolorosamente attuale. Per scagliarle contro l’ingiustizia, però, bisogna averle in tasca. Saper leggere, cioè, e disporre di libri. Nella propria lingua, possibilmente. Cosa praticamente impossibile fino a un paio di secoli fa. E tutt’altro che facile ancora oggi, al di fuori delle esclusive e sempre più blindate fortezze del benessere.

NON È UN CASO, allora, che la miccia della Guerra dei poveri, narrata con lingua nuda e cruda – lapidaria verrebbe da dire – da Éric Vuillard si accenda, a metà Quattrocento, quando, da Magonza, “una colata bollente” si riversa sul resto d’Europa, “infilandosi tra le colline delle città, tra le lettere dei nomi, nelle grondaie, nei meandri dei pensieri; e ogni lettera, ogni frammento di idea, ogni segno di punteggiatura si era ritrovato catturato in un frammento di metallo”. Messe una dopo l’altra, parole, righe e pagine diventano libro. Non un libro qualsiasi: la Bibbia.

È il 1455. Gutenberg è di certo consapevole della portata rivoluzionaria dell’invenzione della stampa a caratteri mobili. Forse, però, non sa di aver avviato il conto alla rovescia che farà esplodere la bomba preparata, un paio di secoli prima, dalla traduzione della Bibbia in inglese, curata da John Wycliffe. L’idea che Dio e popolo parlino la stessa lingua è uno tsunami. Una traduzione dopo l’altra, travolgerà l’Europa. Del resto, “chiedere gentilmente a Dio di parlare la nostra lingua non significa insultarlo”.

Improvvisamente, le parole fondamentali della Parola, raggiungono orecchie e cuori di tutti. Soprattutto degli ultimi che non vi avevano mai avuto accesso. Non diretto, almeno. Cosa non così ovvia come sembra. Pensiamo, ad esempio, che la prima versione italiana della Bibbia è datata 1471, ma la prima messa in italiano arriverà solo cinquecento anni dopo. La celebrerà Paolo VI, il 7 marzo 1965, in una parrocchia di Roma. Perché – si chiedono i diseredati – il Dio dei poveri è così stranamente dalla parte dei ricchi? E perché esorta a rinunciare a tutto per bocca di quelli che hanno preso tutto? In fondo, “se Dio avesse condannato certi uomini a essere servi della gleba e altri a vivere liberi, li avrebbe certamente indicati”.

Tra Verità e Potere è guerra senza esclusione di colpi. “Non sono i contadini a sollevarsi, è Dio!”, avrebbe esclamato Lutero. Ma non era Dio – chiosa Vuillard – “a meno che non si vogliano chiamare Dio la fame, la malattia, l’umiliazione, gli stracci”. Sappiamo come finirono quelle battaglie. La guerra dei poveri, però, non è finita. E sta tornando con accenti apocalittici. Forse l’umanità si è liberata di nasi mozzati, occhi cavati, corpi bruciati, legati alla ruota e torturati con le tenaglie. Ma siamo sicuri che si sia liberata anche di lavoro ingrato, censi, decime, manomorta, affitto, taglia, viatico e ius primae noctis? “Gli esasperati sono così – spiega Vuillard – un bel giorno sgorgano dalla testa dei popoli come i fantasmi sbucano dai muri”. “Ai contadini il fieno! – conclude – agli operai il carbone! Agli sterratori la polvere! Ai vagabondi le toppe! E a noi le parole!”. Che sono pietre, appunto. Preziose, talvolta. Molto.