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La vita bugiarda degli adulti, Elena Ferrante tra ribellione e trasgressione

Autore: Manuela Stacca
Testata: Letteradonna
Data: 17 novembre 2019
URL: https://www.letteradonna.it/it/articoli/tempo-libero/2019/11/17/elena-ferrante-la-vita-bugiarda-degli-adulti/29358/

Crescere per diventare cosa, per assomigliare a chi?» è la domanda scritta sul retro del nuovo libro di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti (Edizioni e/o), uscito il 7 novembre. È una domanda cardine, e una delle tante intorno alla quale ruota questo romanzo di formazione, che ha come protagonista Giovanna Trada: ragazzina di 12 anni, napoletana e di famiglia borghese, che un giorno origlia una frase che la cambia irrimediabilmente, come racconta lei stessa: «due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta». Da qui prende avvio la storia de La vita bugiarda degli adulti, narrata in prima persona, che indaga molti dei temi principali – tanto da definirli ormai ferrantiani – dell'autrice della quadrilogia de L'amica geniale: il difficile rapporto genitori-figli, il desiderio di emancipazione, l'amicizia femminile, la «frantumaglia», la città di Napoli. Qui non c'è il rapporto viscerale tra due amiche geniali e inseparabili, c'è però la stessa voglia di ribellarsi, trasgredire regole e convenzioni castranti. Come quelle legate al concetto di bellezza, alla quale da sempre le donne, in quanto tali, sentono di dover aspirare: per non essere considerate sbagliate, fuori posto e brutte.

IL PERICOLO DELLE ETICHETTE
Come racconta nelle prime pagine Giovanna, il padre in realtà non usa mai la parola «brutta» per definirla ma dice una frase ben peggiore: «sta facendo la faccia di Vittoria», riferendosi alla zia della protagonista, considerata dai genitori una donna brutta, cattiva e disgustosa. Quelle poche parole mettono in moto una serie di domande e dubbi nella psiche della ragazza, che pensa di aver perso la stima del padre – da lei molto amato – e di non essere più bella come un tempo, e come le è sempre stato detto di essere. La protagonista inizia a guardarsi ossessivamente allo specchio, a truccarsi, e da quel momento in poi non riesce più a piacersi, ad accettarsi, perdendo l'autostima e la serenità che aveva contraddistinto la sua infanzia. È il pericolo dei giudizi, delle etichette che specie quando riguardano il corpo delle donne possono fare danni e avere conseguenze incalcolabili. «Di certo mi sentii come se fossi un contenitore di granuli che in modo impercettibile cadevano fuori da me da una fessura minuscola», dice ad un certo punto Giovanna, che inizia a sentirsi rotta dentro, «smarginata», tanto che decide di incontrare l'odiata zia Vittoria: per capire chi è questa donna e se davvero le somiglia.

ZIA VITTORIA: UNA DONNA SCOMODA
L'incontro con la zia non rappresenta solo la «smarginatura» di Giovanna e la frattura con i genitori, ma anche il suo primo atto di ribellione. Zia Vittoria infatti incarna tutto ciò che i genitori, professori borghesi, ricchi e intellettuali, non sopportano: lei abita in un quartiere degradato del Pascone (nella Napoli «bassa», in contrapposizione a quella «alta» del Vomero, dove abita la protagonista), non ha studiato e «fa la serva», dice la madre Nella a Giovanna, parlandone come di una donna meschina e invidiosa. I genitori la mettano quindi in guardia, ma la ragazza finisce subito per rimanere sedotta da questa creatura magnetica, così diversa dalla madre e da tutte le altre donne: Vittoria parla il dialetto, è sboccata, schietta, parla di sesso e dei piaceri carnali senza vergogna, «fuori d'ogni convenzione di casa mia», racconta Giovanna, tanto che definisce l'incontro «fisicamente sconvolgente». Zia Vittoria incarna una femminilità perturbante, scomoda, respingente non dissimile da quella di Lila de L'amica geniale: la donna è autoritaria, arcigna, ma anche sensibile, fragile. E proprio come Lila, viene definita spesso «strega» e «pazza», perché divorata dall'odio e del desiderio di vendetta nei confronti del fratello Andrea (il padre di Giovanna), colpevole di aver rovinato la sua storia d'amore con l'amatissimo Enzo, un uomo sposato e forse delinquente.

DONNE CHE VOGLIONO DEGRADARSI
Giovanna si trova così nel mezzo di una faida, divisa tra due mondi e due Napoli: quella perbenista, dei sentimenti nascosti, delle parole sempre calibrate e quella triviale, delle passioni violente e delle brutte parole. Punto di incontro tra questi mondi solo all'apparenza inconciliabili e lontani è proprio la protagonista, ma anche un misterioso braccialetto: un oggetto feticcio che di polso in polso finisce per svelare le bugie e le ipocrisie di tutti gli adulti. In primis, il tradimento del padre di Giovanna, ai danni della moglie Nella. Proprio come annunciato nell'incipit, infatti, il padre lascia la casa e va a vivere insieme all'amante Costanza e alle figlie Angela e Ida, migliori amiche di Giovanna. Per la ragazza inizia un lungo periodo di crisi: allontana tutti, diventa cinica, sboccata, si veste di nero e si fa bocciare a scuola (un'onta per i genitori). «Mi stava crescendo dentro, ormai, un violentissimo bisogno di degradazione, […] una smania di sentirmi eroicamente turpe», dice quando inizia a fare le prime esperienze sessuali, in un atto di autopunizione e di ribellione insieme. Citando la scrittrice Natalia Ginzburg, Giovanna cade in un «gran pozzo oscuro», divorata da un misto di rabbia e senso di colpa, e convinta, ormai, di essere brutta, stupida, «tutta cattiva, per natura». Proprio come la zia Vittoria, che l'ha spinta a «guardare» con attenzione per smascherare le bugie dei genitori.

LA BELLEZZA NON È SINONIMO DI FELICITÀ
Dopo la discesa negli inferi segue sempre una risalita. E Giovanna infatti smette di abbrutirsi e compie un nuovo passo nel suo personale e complicato coming of age, quando si innamora di Roberto: giovane intellettuale, bello e gentile, che frequenta la stessa parrocchia di zia Vittoria. Giovanna si sforza così di essere più conciliante, disponibile e ritorna a studiare, persino i Vangeli. Ai suoi occhi, Roberto incarna una mascolinità molto lontana da quella machista e prepotente dei suoi compagni di scuola, che la umiliano e la trattano come un corpo, un oggetto sessuale. Il rischio però è che Roberto diventi una trappola, una nuova autorità maschile (come lo era un tempo il padre) dalla quale dipendere. Ad un certo punto approda anche a una nuova consapevolezza: essere belle e attraenti non è sinonimo di felicità. «Bastava guardare anche solo per un attimo chi aveva il privilegio di una bella faccia fine e si scopriva che nascondeva inferni non diversi da quelli espressi da facce brutte e grezze». La vita bugiarda degli adulti indaga proprio questo: le tante pressioni che le donne subiscono nel corso della vita e il loro tentativo di sottrarsi alle aspettative, ai giudizi e ai ruoli prestabiliti. «Sono stanca di essere esposta alle parole altrui», dice Giovanna. Persino zia Vittoria, alla fine, la rimprovera di non valorizzare il proprio corpo e allo stesso tempo le parla della verginità come valore da preservare. L'ultimo atto di trasgressione diventa allora fare sesso con un giovane delinquente e partire con la sua amica Ida per autodeterminarsi e «diventare adulte come a nessuna era mai successo».