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Sull'asfalto di Teobaldi si srotola il Novecento: commozione e ironia

Autore: Giulio Ferroni
Testata: Il Manifesto / Alias
Data: 14 luglio 2013

Attraverso le vicende di un cantoniere della SS n.16 Adriatica, Macadàm di Paolo Teobaldi (edizioni e/o, pp.191 €18) rivolge uno sguardo retrospettivo, tra nostalgia e commossa ironia, a un'Italia scomparsa, a un mondo popolare solido e concreto, al suo senso vivo del fare, dell'agire sulle cose: un mondo che nel corso del Novecento, per facendo i conti con lo sviluppo industriale, ne ha manipolato gli oggetti con spirito artigianale, con disponibilità umana, autonomia personale, coscienza di sé e degli altri.

Siamo davanti a un Curvone alle porte di Pesaro: Macadàm è il soprannome del cantoniere Selvino Gengone, ereditato dal padre Terenzio. Questo soprannome indica di per sé il suo radicamento sulla strada, sull'asfalto che la copre, su tutto ciò che in essa e intorno a essa si svolge, passa rapidamente o permane, si trasforma e si deforma, fino al momento in cui le case cantoniere vengono man mano dismesse e a lui, pensionato, resta l'uso dell'edificio che ha sempre amorevolmente curato, insieme alla moglie Isolina. Come ci informa in epigrafe la citazione di una nota del racconto di Gadda Al parco, in una sera di maggio, la parola Macadàm indica (o indicava) il pavimento stradale solido, e contiene già di per sé un dato antropomorfico, perché è di deriva dal nome dell'inventore del composto di breccia pressata da un rullo, l'ingegnere scozzese John London Mac Adam. Così, auspice l'ingegnere Carlo Emilio Gadda, nel romanzo assumono particolare rilievo gli esiti del lavoro, gli oggetti nella loro più determinata concretezza: con scelte lessicali ben rilevate, tra nomenclature tecniche, accumuli di sinonimi, enumerazioni seriali, frammenti dialettali, particolarissimi toponimi e nomi propri nettamente circostanziati. Ecco ad esempio i ferri del mestiere che Macadàm cura con attenzione e dispone in perfetto ordine nell'apposita capanna o sul suo Ape: «Mancava poco che i suoi ferri li battezzasse e li chiamasse per nome: la vanga, la pala, il badile, il rastrello, le roncole: la galleria dei pennati in scala, la falce, il falcetto e il falcione, la tremenda falce fienaia, l'accetta, lo scorcello e la leppa, il coltello sardo che si portava sempre dietro, puliti, taglienti, di ruota...»

Gaddiano allora Teobaldi? Certo la lezione del grande milanese, non a caso ammiccante nell'epigrafe, è evidente nella cura per la nominazione della realtà, nella volontà di fare risaltare l'evidenza delle cose, di estrarre dal linguaggio un possibile barlume del reale. Ma certo il nostro autore è ben lontano dalla viscerali gaddiana, da quella potente rabbia corrosiva che da se stessa estrae la densità e l'evanescenza degli oggetti e dell'esistere. La scrittura di Teobaldi è tenera e cordiale: il suo accurato impegno lessicale tende piuttosto a una pacata evocazione degli oggetti, sostenuta da un simpatia per l'umanità di quella piccola provincia che si è trovata ad attraversare le trasformazioni del Novecento, partecipando e nel contempo resistendo a uno sviluppo che ha agito sulle forme del lavoro, sulla costruzione del quotidiano, sullo spazio e sui percorsi in cui è dispiegata la vita del paese.

Nelle vicende del Curvone della S.S. 16 (il cui spazio può far pensare anche all'ultimo libro di Fabrizia Ramondino, La via, collocato in una realtà più contraddittoria e lacerata) si misura in fondo un'umile Italia anche se molto diversa da quella contadina e sottoproletaria di Pasolini: è un'Italia del lavoro e della concretezza, della solidarietà e dell'impegno per le cose fatte bene, un'Italia che non si lascia attrarre da miti e illusioni. Macadàm tiene a tenere sempre pulita la strada, sorvegliando meticolosamente la tratta di sua competenza, intervenendo in tutte le imprevedibili necessità che vi si presentano, che possono riguardare veicoli, uomini, animali, vegetali, tutto ciò che si muove su quell'asfalto e sui suoi margini, al di qua di Cattolica e al di qua di Fano, tra la cima della Siligata a nord e Fosso Sejore a sud. Da giovane ha lavorato in zone ben diverse, dalla Ciociaria alla Sardegna, ma per quasi tutta la vita ha misurato il mondo da quello spazio breve di sua competenza; lì ha vissuto tra semplici rapporti umani, con una moglie amata e con lui segnata dal dolore per un bimbo nato morto e per l'impossibilità di avere poi figli (e tante volte quel morto viene evocato col suo nome, Renzino, come se fosse vivo, come se crescesse e si muovesse nel tempo che scorre). Se lì è passata «la storia, un elenco di fatti che non finiva più» (siamo quasi sulla Linea gotica: balenano anche i ricordi dell'occupazione tedesca e del passaggio degli alleati), Macadàm ha percepito nel trasformazioni delle merci, il turbinoso modificarsi del traffico, l'alternarsi delle modalità di rapporto e dei comportamenti umani.

Momento rivelatore, che del resto ha cambiato fortemente carattere e funzione della strada statale, è stata l'apertura dalla A14, col vicino casello che gli aveva fatto venire in mente «la figura di un vecchio libro di storia, forse un sussidiario, che illustrava l'episodio delle forche caudine» (sotto la veste dei ricordi scolastici del suo personaggio l'autore introduce qua e là richiami storici e letterari, citazioni più o meno esplicite, spesso da testi che una volta erano patrimonio comune). Prendendo sempre più atto del cambiamento, il cantoniere se ne sente estraneo e lontano: ne vede l'ostilità, in un generale corrompersi e degradarsi dell'ambiente e dei comportamenti (anche i camionisti sono cambiati, non sono più quelli «pacifici di un tempo»: ora sono «tutti incazzati, tutti a lampeggiare, a minacciare di morte l'universo coi loro clacson sonanti»). Ma se nessuno sembra poter raccogliere l'eredità del suo mondo, sembra balenare alla fine l'ipotesi (l'utopia?) che egli possa trasmetterla a un clandestino nero approdato per caso vicino alla sua strada, che se esso possa dar corpo al figlio che egli non ha avuto. Illusione buonista? sguardo consolatorio nel desiderio di una conclusione felice? esorcizzazione dei terribili conflitti in atto nel mondo? Si tratta comunque dell'approdo di un libro "vero" in cui resiste un piccolo mondo di autentica e forse perduta umanità.