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La scrittrice geniale

Autore: Marina Terragni
Testata: Leiweb
Data: 16 gennaio 2012

Oggi vorrei darvi un consiglio di lettura (se anche voi ne avete, postate: è sabato, si può andare in libreria).
Il libro è l’ultimo di Elena Ferrante, “L’amica geniale”  (E/O). Ne ho scritto per il prossimo numero di Via Dogana. Anticipo qui (ma Via Dogana, in uscita a marzo, compratelo: sarà pieno di cose interessanti!).
“Elena Ferrante la leggo sempre con cautela, all’erta, inseguendo ansiosamente le tracce disturbanti che dissemina nei suoi testi. So che prima o poi mi imbatterò in qualcosa che ho dimenticato di me. Qualcosa di essenziale, lancinante, e anche ripugnante, che attende nel buio per rifarsi vivo: l’odore di certi scantinati dell’infanzia, la muta terribile della pubertà, l’insopportabilità dell’addio al corpo dell’amica da cui un uomo ti separa per sempre, “la sua bellezza di sedicenne poche ora prima che Stefano la toccasse, la penetrasse, la deformasse, forse, ingravidandola”. Identificazione aiutata anche dal fatto che Ferrante nasconde il suo volto: lo scambio tra lei che scrive senza mostrarsi e te che leggi è quasi alla pari, la storia non è di nessuna e perciò è di tutte, la narrazione ha la forza di un mito.
In “L’amica geniale” l’occasione del racconto è ancora una volta la scomparsa di una donna alle soglie della vecchiaia, com’era stato in “L’amore molesto”, romanzo d’esordio. Una donna che sparisce per risignificarsi in extremis. Fermare la tua esistenza prima che finisca definitivamente incagliata nella menzogna, per darti l’occasione, o darla all’altra che ti ha amato, di rileggerla e di redimerla ricominciando daccapo, seguendo il filo di un senso segreto e calpestato.
Qui è Lila a scomparire, e Lenù, la sua amica di sempre, che va in cerca di lei, spalancando la memoria: “Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente”. La “nostra storia”, quella delle bambine Lenù e Lila (Raffaella o Lina per gli altri, Lila solo tra loro), è una storia di emulazione, di sfide, di amore, di lotta. E di libri, di studio. Non ci sono altre zattere per salvarsi dal “rione”, che le minaccia come un destino violento e già compiuto.
Lila e Lenù il mare non l’hanno mai visto. Il mare non bagna quella Napoli di periferia anni Cinquanta, putrida e brulicante come un verminaio. “Una città senza amore”. Nella Napoli di Ferrante non c’è mai bellezza che ti salvi. Il presepe del quartiere –lo scarparo, il salumiere, la pazza, l’orco- è tenuto insieme solo dall’odio e dalla rassegnazione. Un mondo «pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione», ora minacciato anche dal diavolo del boom economico. Tanto diverse tra loro, Lila e Lenù si fanno luce, sono un corpo solo, la bellezza e il genio passano dall’una all’altra che se ne riempiono e svuotano come vasi comunicanti.
Di questo testo insolitamente fluviale per Ferrante –è l’inizio di una saga che si svilupperà in più volumi-, testo che va letto e riletto (ma per farlo ancora più tuo lo si dovrebbe copiare e ricopiare), mi restano alcune scene di una vivezza crudele. L’uscita delle ragazze e di loro amici “tàmmari” a via Chiaia: “Fu come passare un confine. Mi ricordo un fitto passeggio e una sorta di umiliante diversità. Non guardavo i ragazzi, ma le ragazze, le signore: erano assolutamente diverse da noi”. La rissa che segue con i giovani borghesi di piazza dei Martiri.
La gara di botti sul terrazzo la notte del Capodanno 1959. E’ qui che Lila fa per la prima volta esperienza di ciò a cui dà il nome di “smarginatura”: «Fu come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata».
La crosta della realtà che di colpo si crepa, come una terra vulcanica. Il solido che si disfa, si sfalda, si svela nella sua minacciosa incoerenza ma anche in tutto il suo possibile. L’urto violento di una nausea improvvisa che deforma la percezione ma la fa anche più nitida e precisa. L’insensato è un luogo abituale di Ferrante: Olga che va in pezzi in “I giorni dell’abbandono”, il verme nel ventre della bambola di Leda in “La figlia oscura”.
La scrittrice cerca nella sua “frantumaglia” come chi frughi furiosamente in un immondezzaio, senza pietà per se stessa, alla ricerca di qualcosa di purissimo. “Quando scrivo”, ha detto a Luisa Muraro e a me in un’intervista, “è come se macellassi anguille”. Un’esperienza perturbante anche per chi legge, come un setting analitico infernale. Ma la speranza della verità che guarisce resta, fortissima.